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Il Libano e l'esercizio del dialogo

Dopo l’esplosione del 4 agosto il pensiero comune è che non se ne scopriranno le cause; tuttavia la popolazione e i giovani in particolare, si sente chiamata a pensare al futuro con speranza

Il pomeriggio del 4 agosto, quando l’onda d’urto dell’esplosione ha raso al suolo l’intera area portuale di Beirut, seminando morte e distruzione tutt’intorno e propagandosi per un raggio di circa di 10 chilometri dall’epicentro, in molti avranno pensato che quel terribile evento fosse anche la tragica metafora della vita sociale, politica ed economica del Libano, divenuta ormai insostenibile e giunta a un punto di deflagrazione.

I molti libanesi con cui mi è capitato di parlare erano già rassegnati, nonostante le inchieste che sicuramente ci saranno, a un’amara verità: non ci sarà nessuna verità. Le macerie dell’area a ridosso del porto sono state rimosse, ma le ferite sono ancora evidenti e sanguinano. Le facciate dei palazzi, alcuni dei quali risalenti alla dominazione ottomana, completamente sventrati o inagibili. Nell’opinione pubblica libanese si è consapevoli che pur nella tragedia si è stati relativamente fortunati. Tantissimi erano rientrati nelle proprie abitazioni dopo l’orario d’ufficio. Se l’esplosione si fosse verificata alle tre del pomeriggio il bilancio sarebbe stato ben più grave.

Ma la stessa esplosione ha anche messo in risalto la straordinaria resilienza del popolo libanese, unica vera risorsa a cui è legata in prospettiva la possibilità di una fuoriuscita dalla crisi che attanaglia il “Paese dei Cedri” ormai da diversi anni. Beirut cento volte distrutta, cento volte rinata dalle sue ceneri. Esiste un senso della solidarietà che, nonostante le numerose contrapposizioni ideologiche e confessionali, è sempre pronto a sprigionarsi, specie tra i giovani. Gli steccati religiosi e politici, almeno per un momento, sono stati abbattuti. Commoventi i giovani di tutte le confessioni religiose che, armati di pale, vanghe, scope, si sono precipitati a ripulire le strade del Downtown, di Gemayze e Mar Michael, rese impraticabili dalle macerie e dai vetri.

Questi giovani, che non hanno conosciuto direttamente la quindicennale guerra civile, sentono però come impellente il bisogno di ricostruire il Paese ex novo, al di là degli attuali schieramenti politici su base confessionale. La speranza di cambiamento e di ricostruzione è la stessa che lo scorso autunno ha portato tantissimi cittadini nelle strade di Beirut durante le più imponenti manifestazioni spontanee della recente storia libanese che, forse con un filo di ironia, la gente ha preso a chiamare la révolution.

Si protestava contro la svalutazione della lira libanese rispetto al dollaro, causa di un’enorme riduzione del potere d’acquisto e di un subitaneo impoverimento persino del ceto medio; contro la corruzione dilagante della classe dirigente; contro i poteri forti che, in maniera neppure tanto sotterranea, si spartiscono le risorse finanziarie del paese; contro lo strapotere delle banche, vero e proprio Stato dentro lo Stato, come ha recentemente dichiarato Le Monde; contro l’assenza di infrastrutture che dovrebbero al contrario rilanciare l’economia, oggi basata quasi esclusivamente sul settore terziario; contro una crisi che costringe migliaia di giovani a emigrare all’estero. A lasciare il Libano, con destinazione ultima i paesi arabi del Golfo Persico e il Canada, sono purtroppo sempre più spesso giovani con un elevato grado di istruzione, formatisi nelle prestigiose università pubbliche e private, che non intravvedono alcun futuro in Libano.

In questo quadro qual è lo stato delle relazioni tra musulmani e cristiani e del dialogo interreligioso? La società libanese è un vero e proprio mosaico etno-confessionale assai complesso e articolato: cristiano-maroniti, greco-ortodossi, greco-cattolici, armeni, protestanti e, sul versante mussulmano, sunniti, drusi e sciiti.

All’interno di questa galassia di fedi ci sono state in passato forti tensioni, spesso deflagrate in aspri conflitti, ma anche forme di dialogo e di tolleranza tra le comunità. Sappiamo che la polarizzazione tra sunniti e sciiti è alla base delle aperte conflittualità di tutto il Medio Oriente e, se è vero che il mosaico di fedi della società libanese assomiglia per sua natura a una polveriera pronta a esplodere, è altresì vero che secoli di convivenza tra i gruppi fanno del Libano un unicum. Spetta ai governanti dell’area, ai ceti dirigenti libanesi, alle diplomazie internazionali far sì che questo patrimonio di tolleranza e convivenza non vada disperso. Da questo punto di vista le Ong internazionali svolgono un ruolo di mediazione determinante.

Nel quartiere del Downtown di Beirut chi solleva il naso verso l’alto vede letteralmente affiancati l’uno agli altri i minareti della Grande Moschea e il campanile della cattedrale maronita di Saint George. Piace pensare che i due edifici siano in realtà l’immagine suggestiva di un dialogo costante e fruttuoso tra le fedi. Nell’interesse del Libano e dei libanesi.

 

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