Speranze per il cessate il fuoco in Libia
28 ottobre 2020
L’intesa sottoscritta a Ginevra apre a nuove importanti possibilità per la fine del conflitto, anche se molto va ancora fatto. Intervista con Arturo Varvelli, Responsabile dell’Ufficio di Roma e Senior Policy Fellow dello European Council on Foreign Relations (Ecfr)
Venerdì 23 ottobre la Libia ha compiuto un importante passo verso la possibilità di una pace nel Paese. A Ginevra, infatti, è stato sottoscritto un accordo per un cessate il fuoco permanente in tutto il territorio, firmato da rappresentanti del governo di accordo nazionale di Tripoli, guidato da Fayez al-Serraj, e dalle autorità della Cirenaica, supportate dal maresciallo Khalifa Haftar.
UNSMIL, la missione Onu di sostegno in Libia, ha definito la firma «un risultato storico» e «un punto di svolta verso la pace e la stabilità».
I colloqui, moderati da Ghassan Salamé, rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite e capo della missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia, ha raccolto l’approvazione di gran parte degli organismi internazionali, che vedono in questo atto formale una possibile strada verso la fine di un conflitto che, in fasi e dimensioni diverse, va avanti da quasi dieci anni, ovvero dalla caduta di Muammar Gheddafi, catturato e morto a Sirte il 20 ottobre del 2011.
Arturo Varvelli, responsabile dell’Ufficio di Roma e Senior Policy Fellow dello European Council on Foreign Relations (ECFR), spiega che questo accordo è «piuttosto credibile, perché non è una stretta di mano estemporanea strappata da Macron a Parigi, né un incontro piuttosto improvvisato a Palermo. È frutto di un percorso che più o meno era cominciato a Berlino nel gennaio scorso, è stato guidato in qualche maniera dalle Nazioni Unite ma è stato fatto proprio dai libici. Alla base ci sono degli elementi di credibilità maggiori rispetto ai tentativi un po’ estemporanei del passato, anche se alcuni problemi potrebbero profilarsi all'orizzonte, per cui non è ancora tutto chiarissimo».
La guerra in Libia è stata alimentata e caratterizzata negli anni da una presenza in momenti diversi ma comunque sempre molto forte di attori stranieri. Pensiamo all'Egitto nella prima fase, poi la Russia, la Turchia, anche l'Italia da un certo punto di vista. Ma oggi sembra invece che si punti l'attenzione di più sulla componente libica. Che cosa cambia in questo senso?
«Le due componenti andrebbero portate avanti di pari passo. È impossibile pensare a una pace che viene stabilita solamente sul terreno dalle forze libiche, perché ormai il coinvolgimento di attori internazionali è troppo importante. Se gli attori internazionali, gli attori di prossimità che hanno un ruolo all’interno della Libia, non sono d’accordo, difficilmente potranno agire coerentemente e rispettare la pace stabilita, quindi i due livelli sono fortemente correlati. È difficile pensare che l’uno possa andare avanti senza l’altro, quindi bisognerà ancora guardare alle potenze esterne, che sono ancora le detentrici di una eventuale stabilizzazione del Paese. Mi riferisco in questo particolare momento alla Russia e alla Turchia, perché sono presenze militari sul campo a differenza di altre potenze e quindi sono loro che dovrebbero essere in qualche maniera sollecitate al mantenimento degli accordi che sono stati trovati dalle fazioni libiche. È molto difficile però pensare che la Turchia, che secondo me è arrivata per stare a lungo in Libia e avere una partnership strategica con il governo di unità nazionale, possa rinunciare a una presenza militare. Fin quando i turchi non se ne andranno, certamente anche i russi dall’altra parte non lo faranno».
Tendiamo a definire la stabilizzazione di un Paese in termini puramente geopolitici, dalla fine dell'influenza esterna alla fine dell'esistenza di due governi contrapposti. Tuttavia, il fatto di formare un governo non risolve da solo i problemi. Dopo anni di ricerca, su che cosa ritiene ci si dovrebbe concentrare in termini di bisogni?
«La Libia ha bisogno di tutto. È un Paese potenzialmente ricco, ma ha bisogno di ricostruire la società, ha bisogno di fare state building, ma forse ancor più di fare nation building, perché è un Paese molto giovane e con un’identità che è stata forzatamente violentata da quarantadue anni di dominio di Gheddafi, che si è creato una nazione spesso in contrapposizione col mondo occidentale, spesso un po’ finta, prima panarabista e poi con altre sovrastrutture, create proprio per tenere insieme una popolazione che non aveva una grande dimestichezza con il concetto di nazione. È vero, esiste una percezione dell’essere libici, ma esiste anche la percezione di essere della Tripolitania, della Cirenaica, così come di essere tribù di varie componenti».
Mentre a Ginevra si perfezionava l’accordo di cessate il fuoco, l’organizzazione umanitaria Oxfam pubblicava il suo rapporto “Un reale interesse comune”, in cui si denuncia che “delegare i controlli delle frontiere a Paesi del Nord Africa viola i diritti umani”. Un partner unificato in Libia potrebbe offrire più garanzie in termini di rispetto dei diritti umani?
«Questo dovrebbe essere l'obiettivo. Avere un governo che ha una sua rappresentatività, che in qualche maniera è riconosciuto dalla maggioranza per lo meno dei libici, aiuterebbe ad avere un monopolio dell’uso della forza, aiuterebbe ad avere diritti e doveri molto chiari, diritti umani, diritti civili, quindi da questo punto di vista in prospettiva sì».
Quali saranno i prossimi passi?
«Quello che sta già avvenendo e avverrà nei prossimi giorni è che le Nazioni Unite di nuovo convocheranno un vertice a Tunisi nel quale dovrebbe concretizzarsi il passaggio dal governo di unità nazionale un nuovo governo nel quale le varie componenti territoriali e politiche del Paese dovranno essere maggiormente rappresentative. C’è bisogno di una svolta, cioè avere un governo di unità nazionale che abbia una maggiore forza all'interno del Paese, lasciando fuori le componenti che non rispettano gli accordi e che non hanno rispetto dell’unità nazionale. Qui bisogna capire che cosa succederà, questo passaggio è molto importante perché dovrà essere un governo il più inclusivo possibile, capace di lasciare fuori le componenti estremiste e minoritarie».
Sicuramente è necessario rimettere al centro i libici come protagonisti del processo politico e lasciare fuori il più possibile gli attori esterni, ma è necessario farsi qualche domanda sul ruolo dell'Italia. Che ruolo dovrebbe rivestire? Che ruolo può giocare Roma, vista anche la posizione geografica?
«Noi abbiamo la capacità di parlare con tutti: possiamo parlare col Cairo, così come con Ankara e con Mosca. Il nostro vero problema è di avere qualcosa da dire. Non è sufficiente essere ben posizionati, ma è necessario avere idee, capacità di mediazione e volerle spendere. Io penso che il nostro ruolo in questo momento sia quello di creare una posizione unitaria europea e coerentemente di saperla esprimere sul piano internazionale. È difficile pensare che l’Italia da sola possa risolvere la crisi libica, lo può fare in quanto elemento importante dell'Unione Europea e se l’Europa sarà capace di esprimere una posizione forte verso questa crisi. Insomma, c’è molto da lavorare».
Ritiene che le recenti frizioni tra Macron ed Erdogan possano influire negativamente in questo senso?
«Certamente sì. Sono due membri importanti della NATO, che hanno una proiezione mediterranea molto evidente e questa crisi paralizza l’organizzazione, ma allo stesso tempo obbliga l'Europa prendere posizione nei confronti di Erdogan, quando in realtà bisognerebbe avere un dialogo con la Turchia. Purtroppo, dal Mediterraneo orientale alla questione siriana fino alla questione libica, è un partner imprescindibile».