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Chiese che riaprono e chiese che restano chiuse

Una panoramica sulla situazione in alcuni paesi africani, dove è presente la Chiesa metodista unita

Alcune chiese metodiste in Africa hanno cominciato a riaprire le porte per i culti. Lo si legge sul sito di notizie della United Methodist Church, che segnala come in alcuni paesi africani, dove è presente la denominazione, è stato revocato il divieto per i raduni di carattere religioso imposto per limitare la diffusione dell’epidemia di Covid-19. 

Analogamente a quanto successo nel nostro paese, quindi, dal 31 maggio per esempio i metodisti del Botswana hanno potuto celebrare il culto dopo sette settimane di lockdown, vivendo la stessa situazione ambivalente avuta in Italia: da una parte, l’emozione e la «gioia repressa» di ritrovarsi, senza però potersi abbracciare e stringere le mani, come si legge nell’articolo, in una «nuova normalità» non semplice da accettare. Dall’altro, la necessità di esercitare un «atto di bilanciamento» per selezionare le 50 persone che avrebbero potuto partecipare al culto, su un totale di 300 membri. Il governo del Botswana ha infatti consentito raduni a un massimo di 50 persone, ovviamente con mascherine, misurazione della temperatura corporea e registrazione dei partecipanti.

Il Botswana fa parte della stessa area episcopale dello Zimbabwe, dove però al momento resta il lockdown a causa di un picco nei casi di Covid-19 alla fine di maggio (parliamo di 391 casi di contagio accertati a oggi).

Anche in Sudafrica, la Hebron United Methodist Church di Città del Capo (dove si trova l’epicentro dell’epidemia nel paese) ha deciso di proseguire con la pratica dei culti online, sebbene il presidente Ramaphosa abbia annunciato la riapertura dei luoghi di culto dal 1° giugno. La chiesa, fondata da un gruppo di zimbabwesi, conta oggi 400 membri e non ha una sede propria, ma affitta i locali di una scuola, che però rientra tra le categorie a cui non è ancora consentita la riapertura.

In Liberia, le attività di culto sono riprese il 7 giugno, e anche qui i vincoli della “nuova normalità” si sono fatti sentire. Sebbene nel paese le limitazioni sui raduni religiosi fossero state allentate già da 15 maggio, le chiese avevano bisogno di tempo per adeguarsi alle normative, che prevedono una capienza ridotta del 75%, con conseguenze pesanti per adunanze di centinaia di persone. La First United Methodist Church della capitale Monrovia, con 500 frequentanti al culto, ha dovuto organizzare tre diversi turni per ogni domenica.

Una riapertura precoce si è avuta invece in Costa d’Avorio, dove dal 17 maggio alcune chiese hanno potuto riaprire, dopo due mesi di chiusura, con un limite massimo posto dal governo di 200 persone per adunanza. Per alcune questo non ha creato problemi, per altre è stato necessario fare più turni.

Tra i paesi che non hanno imposto la chiusura dei luoghi di culto, il Malawi, dove è stata prevista solo la limitazione a un massimo di 100 persone, oltre ovviamente alle norme sulle distanze e l’igienizzazione.

Più complesso il caso del Congo, dove i rappresentanti di diverse denominazioni, tra cui la United Methodist Church, la Chiesa cattolica e altre denominazioni protestanti ed evangelicali, hanno chiesto alle autorità la graduale riapertura dei luoghi di culto, chiusi per più di due mesi a causa dell’emergenza sanitaria, che nel paese conta più di 4900 casi e più di 100 decessi, per circa la metà concentrati nella capitale. Già a metà maggio i leader religiosi chiedevano la riapertura delle chiese nelle 19 province (su 26) non colpite dal contagio, ma pare che le autorità politiche non abbiano ancora risposto alla richiesta.

Anche in Sierra Leone, con 1200 casi e una cinquantina di decessi, resta il divieto di incontri “dal vivo”: il presidente Julius Maada Bio ha chiesto al Consiglio interreligioso, comprendente le due principali religioni del paese, cristianesimo e islam, di elaborare un piano condiviso per la ripresa delle attività di culto, ma attualmente il piano non è ancora stato presentato.

Ultimo caso, quello del Mozambico che con 638 casi confermati, 1560 guarigioni e soli 4 decessi, ha comunque deciso di mantenere il lockdown fino al 30 giugno. 

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