Vogliamo case sicure
11 giugno 2020
Nel Regno Unito, una nuova legge dovrebbe tutelare le vittime di violenze domestiche, ma secondo il Jpit, che raggruppa varie chiese protestanti, non fa abbastanza, soprattutto per le persone immigrate
Per molte persone, soprattutto donne, “stare in casa” nel periodo dell’emergenza Coronavirus non ha voluto dire “stare al sicuro”. Tutt’altro. Questo vale per milioni di persone nel mondo, a rischio di abusi, violenze e isolamento, e anche il Regno Unito non ha fatto eccezione. Secondo i dati (citati dal Guardian) di “Counting Dead Women”, iniziativa della femminista e attivista Karen Ingala Smith, che dal 2012 tiene il tragico conteggio delle vittime di femminicidio (gli elenchi, nome per nome, si trovano sul suo sito internet) nelle prime tre settimane di lockdown (23 marzo-12 aprile), sono stati contati 16 omicidi legati ad abusi domestici, più del doppio rispetto al “normale”. Inoltre, la linea telefonica di aiuto “National Domestic Abuse Helpline”, dell’organizzazione Refuge, ha riscontrato un aumento del 66% delle chiamate e addirittura del 950% degli accessi al proprio sito Internet dall’inizio della crisi Covid-19.
Questi e altri dati sono citati dal “Joint Public Issues Team”, gruppo di lavoro su questioni sociali e politiche che riunisce Chiesa di Scozia, Chiesa metodista di Gran Bretagna, Chiesa riformata unita e Unione battista in iniziative di sensibilizzazione e advocacy.
Il Jpit è infatti impegnato in una campagna rispetto alla nuova proposta di “Domestic Abuse Bill”, disegno di legge sugli abusi domestici, definito una «benvenuta occasione per apportare un cambiamento vitale alla nostra risposta agli abusi domestici». Tuttavia, la proposta di legge, passata in seconda lettura in Parlamento lo scorso 28 aprile, e in questi giorni (dal 4 al 17 giugno) sottoposta alla lettura puntuale di un comitato nominato appositamente, composto da 17 parlamentari, due presidenti e due segretari, non soddisfa del tutto.
Il Jpit ritiene che, come rilevato da diverse organizzazioni, per fare in modo che «questa proposta di legge crei realmente una risposta valida per tutte le persone sopravvissute agli abusi», occorrono degli emendamenti, in particolare in tre punti. Innanzitutto il sostegno economico per aiutare le vittime di violenza: se le autorità locali hanno il dovere di fornire un alloggio alternativo alle vittime, devono ricevere fondi di sostegno dal Governo per sostenere l’attività dei rifugi e impedire che le persone siano escluse da questi per mancanza di posti, con le conseguenze deleterie che possiamo immaginare (si parla di 1715 posti mancanti nel 2019, e la situazione è ulteriormente aggravata dalle nuove norme sul distanziamento sociale);
A questo è legata la seconda richiesta, cioè la necessità di dare priorità alle vittime, per esempio nella ricerca di una nuova casa; spesso ci si ferma all’amministrazione della “giustizia criminale” senza pensare al dopo, al fatto che queste persone si trovano senza una casa, o in estrema difficoltà per averne una.
Questa situazione può essere doppiamente pesante per le donne immigrate, e questo è il terzo punto sottolineato dal Jpit: attualmente l’accesso alle misure di sostegno dipende dal loro status, ed esclude tutta una serie di tutele e benefit (disabilità, disoccupazione, sostegno alle spese per figli, abitazione, riduzione di tasse…) nel caso in cui rientrino nella categoria Nrpf, “no recourse to public fund”, condizione imposta a determinate categorie di persone immigrate.
Il Jpit sollecita quindi a inviare ai membri della commissione una lettera sul modello scaricabile dal suo sito Internet, in cui vengono appunto spiegati i punti da cambiare nella proposta di legge.