Libia, un nuovo passo indietro per Haftar
21 maggio 2020
Gli ultimi avvenimenti sul terreno spostano l’inerzia della guerra a favore di Tripoli, mentre il maresciallo della Cirenaica annuncia il ritiro parziale delle sue truppe ad alcuni chilometri dalla linea del fronte
Mentre un’inchiesta di The Guardian e Avvenire svela il sistema di respingimenti messi in atto da Malta nei confronti delle persone in fuga dalla Libia, sul terreno del Paese africano la guerra continua nonostante tutti gli appelli alla tregua in un momento come questo.
Tuttavia, qualcosa si muove: martedì 19 maggio le forze dell'autoproclamato Esercito nazionale libico (LNA) del maresciallo Khalifa Haftar hanno deciso di ritirarsi a due o tre chilometri da tutte le linee del fronte a Tripoli a partire da mezzogiorno per consentire agli abitanti della capitale di muoversi liberamente per le cerimonie della fine del Ramadan e in vista della festività di Eid al-Fitr.
Meno di un mese fa, in occasione dell’inizio del Ramadan, Haftar aveva dichiarato la propria volontà di assumere pieni poteri sulla Libia e aveva rifiutato ogni ipotesi di tregua, ma il capovolgimento di fronte in corso intorno all’assedio di Tripoli ha cambiato tutto.
Gli ultimi avvenimenti sul terreno, in effetti, hanno spostato di molto gli equilibri: lunedì 18 maggio l’esercito di Tripoli aveva preso il controllo della base aerea di al-Watiya, la più importante roccaforte militare di Haftar nei pressi della capitale libica e sede di una grande base aerea. Il giorno dopo, le forze che sostengono al-Sarraj ha conquistato le cittadine di Badr e Tiji nella Libia occidentale, spostando per la prima volta il fronte nell’ultimo anno.
Qunto avvenuto lunedì, in particolare, segna un duro colpo a livello strategico per la campagna condotta da Haftar nell’ultimo anno per conquistare Tripoli e controllare l’intero territorio libico.
Nell’aprile del 2019, infatti, Haftar aveva lanciato un attacco alla capitale libica, controllata dal governo internazionalmente ricnosciuto retto da Fayez al-Sarraj, dando l’avvio a una delle fasi più violente e turbolente di un conflitto cominciato nel 2011 e che da allora ha attraversato molte fasi, risultate nel sostanziale fallimento del Paese a tutti i livelli.
Oggi, dopo le sconfitte che si sono succedute nelle ultime settimane, l’unica importante roccaforte di Haftar nella Libia occidentale rimane Tarhuna, che secondo Agenzia Nova è già nel mirino dell’esercito di Tripoli.
Il portavoce di Haftar, al-Mesmari, ha voluto minimizzare la portata della sconfitta, dichiarato che la base è stata abbandonata volontariamente, come parte di movimenti tattici pianificati a lungo. Il portavoce ha infatti parlato di una "redistribuzione e riposizionamento sui fronti di battaglia” e di un disimpegno da alcune aree residenziali affollate. Tuttavia, rimane il fatto che, con l’abbandono della base, le forze fedeli ad Haftar siano ora prive della loro unica base aerea nei pressi di Tripoli. Una circostanza che ha spinto Fathi Bashagha, ministro dell'Interno a Tripoli e figura molto attiva e visibile negli ultimi mesi anche a livello internazionale, a dichiarare che «le possibilità di successo di Haftar sono ora pari a zero».
Al netto delle dichiarazioni delle parti coinvolte, l’impressione condivisa è che la conquista di Tripoli da parte di Haftar sia ormai piuttosto improbabile, anche perché, dopo più di mille civili uccisi e il sostanziale fallimento di tutti i tentativi di soluzione politica e diplomatica, ora l’iniziativa militare è passata nelle mani di Tripoli e del GNA, che negli ultimi mesi ha visto un sempre maggiore supporto militare da parte della Turchia. Il presidente turco Erdogan festeggia quindi una vittoria importante, perché la conquista della base di al-Watiya permette ad Ankara di trovare una sede stabile per il proprio impegno militare sul territorio libico, fondamentale anche per gli investimenti energetici di Ankara in petrolio e gas offshore lungo la direttrice che dal Mediterraneo orientale (Cipro) muove fino al Maghreb.
È chiaro che ridurre il conflitto libico a un fatto interno sarebbe un grave errore di valutazione: oltre alla Turchia, infatti, sono molti i Paesi stranieri coinvolti in questa fase del conflitto, non soltanto sul piano diplomatico: Qatar, Emirati Arabi Uniti e Russia, infatti, sono impegnati con milizie o con forniture di armi e munizioni in sostegno di Khalifa Haftar e dei suoi alleati, mentre il sostegno egiziano, decisivo nei primi anni di ascesa del maresciallo, oggi sembra meno convinto.
Il ritiro dal fronte di Tripoli, anche se parziale, è un problema molto serio per Haftar: le possibilità di tenere unito il suo fronte, formato da ex ufficiali di Gheddafi, gruppi salafiti e mercenari di varia provenienza, dipendono in parte dalla prospettiva di conquistare Tripoli e di conseguenza tutta la Libia. Senza questa possibilità, l’alleanza potrebbe disfarsi rapidamente. Tuttavia, la presenza sempre più ingombrante della Turchia ha per certi versi ricompattato gli alleati internazionali, soprattutto le monarchie del Golfo, contrarie a un’espansione di Ankara sulla sponda meridionale del Mediterraneo.
È legittimo chiedersi se gli ultimi rovesci sul campo verranno sfruttati per individuare soluzioni politiche a un conflitto che ha visto un generale fallimento della diplomazia internazionale, in modo non troppo diverso da quella della guerra in Siria, rapidamente passata da rivoluzione a guerra civile a guerra per procura e ancora bloccata dall’assenza di vie d’uscita politiche. In attesa di capire se il “cessate il fuoco” verrà accolto e rispettato o se sarà l’ennesimo passo destinato a rimanere lettera morta, le Nazioni Unite sono tornate a chiedere una tregua generale e la ripresa dei colloqui di pace.