Libia: quale risposta da Berlino?
21 gennaio 2020
«Una grande dichiarazione di intenti». L’analisi di Lorenzo Marinone (Cesi)
Il fine settimana ha portato con sé una firma difficile da leggere per il futuro della Libia, o di quel che ne resta. A Berlino, infatti, i rappresentanti di alcuni governi dell’Unione europea e quelli di Paesi coinvolti in modo diverso nel conflitto – come la Russia, la Turchia, l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti – hanno concluso l’atteso vertice con una dichiarazione comune che dichiara tra le altre cose l’impegno ad astenersi “da qualsiasi ingerenza nel conflitto armato e negli affari interni della Libia”.
Nei giorni che hanno preceduto l’incontro si è detto e scritto molto sulla possibilità di interrompere o concludere una guerra che, pur avendo attraversato fasi diverse, va avanti dal 2011.
Oggi sul terreno la situazione non è troppo diversa da quella degli ultimi anni, con un governo riconosciuto dalle Nazioni Unite, guidato da Fayez al-Sarraj e insediato a Tripoli, e una fazione rivale che siede a Bengasi e che fa riferimento al maresciallo Khalifa Haftar. Tuttavia, nelle ultime settimane è diventato chiaro che la Libia è sempre più interessante per le potenze straniere, schierate su entrambi i fronti. In particolare, la Russia appoggia Haftar con truppe private e la Turchia ha deciso di inviare alcuni reparti speciali in supporto di Sarraj.
Anche alla luce di questo crescente interesse, il vero obiettivo iniziale era quello di riequilibrare la presenza internazionale tra i vari attori. Che cos’è rimasto di questa intenzione una volta chiusi i lavori? Per Lorenzo Marinone, analista del programma Nord Africa e Medio Oriente del Cesi (Centro Studi Internazionale), «le intenzioni non corrispondono a quello che poi è effettivamente il risultato ottenuto».
Come mai?
«Per un motivo molto semplice. L’intenzione era probabilmente duplice: la prima era un’iniziativa della Germania su input dell'Onu, ma aveva come obiettivo quello di trovare di nuovo una posizione europea unita, quindi sanare in parte le cicatrici delle dispute soprattutto tra Italia e Francia. L’altro obiettivo era quello di mettere attorno allo stesso tavolo tutti gli sponsor esterni delle varie fazioni libiche, quindi non solamente i Paesi europei ma anche e soprattutto Paesi della regione, come gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto. Allora, formalmente tutti questi attori erano seduti attorno al tavolo e formalmente l'Europa ha parlato con una voce sola. In realtà, quello che è successo è un'altra cosa: si è dovuti correre senza alzare l'asticella perché la Turchia e la Russia si sono intromesse, hanno preso in mano la partita diplomatica una settimana prima della conferenza di Berlino e questo ha rovinato un po' il gioco del processo di Berlino. Dall'altro lato è successa una cosa molto importante: la Conferenza di Berlino organizzata in questo modo ha legittimato completamente Khalifa Haftar, cioè ha legittimato un attore che ha iniziato un'offensiva militare per conquistare il potere bombardando Tripoli quando nella capitale libica c'era il segretario generale dell'Onu. Berlino di fatto ha detto che questo è un modo legittimo per cercare di conquistare il potere e per avanzare le proprie ragioni, che è una cosa gravissima perché segna un precedente altrettanto grave».
Spesso si tende a semplificare il conflitto libico trattandolo come una guerra tra due fronti uguali e contrapposti. Anche a Berlino si è sottolineata la partecipazione di Sarraj e Haftar, ma non si è parlato del sud del Paese, il Fezzan. È fuori da qualsiasi discorso in questo momento?
«Diciamo che è abbastanza fuori dai discorsi diplomatici, ma non è assolutamente fuori dai radar delle varie potenze che hanno interessi in Libia, né è fuori dai radar delle fazioni libiche. Il Fezzan è un territorio che è stato utilizzato da Haftar per costruire la sua offensiva su Tripoli. Appena prima di iniziare l'attacco a Tripoli, infatti, aveva compiuto un'avanzata militare nel Fezzan facendo patti con le varie tribù che controllavano il territorio e che lo controllano tutt’ora, nel senso che lì non c'è nessuna unità di Haftar, ma ci sono le stesse milizie che c'erano prima e che hanno giurato fedeltà ad Haftar. Quanto questo giuramento possa durare lo si vedrà giorno per giorno, non c'è nulla di più solido o di più ampio respiro. Quel che è certo è che il Fezzan rimane una regione completamente dimenticata da quelle che sono le istituzioni dell'una e dell'altra parte, quindi quelle ufficiali e quelle diciamo "alternative", dell'est, perché di non riceve finanziamenti, ci sono delle crisi umanitarie anche molto molto gravi e ricorrenti ma rimane completamente fuori da quei meccanismi che permetterebbero di dare un po' di stabilità da tanti punti di vista: sociale, economico, ma anche politico e di sicurezza. Nel Fezzan ci sono molte risorse importanti, come oro e terre rare, e poi è un crocevia, un canale di comunicazione fra il Sahel e la costa mediterranea del Nordafrica. Di conseguenza, è un punto nevralgico di vari traffici e lasciarla abbandonata a se stesso è un errore enorme, perché da lì si proietta instabilità su tutto il resto della Libia e del Nordafrica. Non averlo inserito all'interno di un meccanismo diplomatico che vuole stabilizzare la Libia forse è una leggerezza».
Ecco, lei ha citato i traffici; uno di questi è naturalmente quello di armi. Una delle iniziative che sono state prese a Berlino è stato ridare vita alla missione Sophia che era stata messa a margine dal precedente governo italiano. Possiamo considerarlo il risultato principale di questa conferenza?
«Bisogna ancora vedere cosa succederà effettivamente, nel senso che quella di Berlino è una grande dichiarazione di intenti a cui bisogna ancora vedere se seguirà qualsiasi azione. Per adesso sono parole scritte nero su bianco, un documento che regge finché sul campo non succede qualcosa di diverso. Lunedì l'Unione europea a livello di ministri degli Esteri ha di nuovo discusso di misure di rilancio dell'operazione Sophia, eventualmente anche con un formato più allargato».
La missione Sophia può ripartire magari con un mandato leggermente modificato e più ridotto, come chiede l'Italia, focalizzato solo a controllare i flussi di armi in arrivo verso la Libia e non quindi con il controllo dei flussi migratori com'era in precedenza. È quello che serve?
«Questa è una misura che affronta l'embargo di armi in modo molto strabico, perché la Turchia fornisce armi a Sarraj e quindi al governo di Tripoli e per farlo utilizza soprattutto il canale marittimo, mentre invece chi rifornisce di armi Haftar, cioè soprattutto gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e anche marginalmente la Giordania, anche se ci fosse un embargo sui canali marittimi potrebbero utilizzare tranquillamente le vie terrestri nonché quelle aeree. Perché l'Egitto confina con la Libia e quindi fare una missione di questo tipo, che taglia completamente i rifornimenti solo a una parte, risponde a una richiesta dell'Onu, però soltanto a metà, quindi equivale a far vincere la parte di Haftar. È un'operazione che bisogna fare, ma con molta attenzione, perché si sta non facendo un embargo ma si sta dando una vittoria in mano a una parte che non è quella che la comunità internazionale riconosce come legittima».