Dietro le quinte di Agape, la casa di tutti
04 dicembre 2019
A colloquio con Sara Marta Rostagno, vicedirettora del Centro Ecumenico di Prali che ci racconta i prossimi campi invernali di Agape
Il prossimo 5 dicembre segna l’apertura della sessione invernale dei campi di Agape, che si concluderanno il 13 aprile 2020. Molte le tematiche affrontate, dal lavoro alla fede, dagli stereotipi moderni al rapporto tra genitori e figli.
Ne abbiamo parlato con Sara Marta Rostagno, vicedirettora del Centro Ecumenico sito a Prali (To).
– Come vengono scelti i temi dei campi?
«Alla fine di ogni campo si fa una valutazione con i campisti e le campiste e si raccolgono i loro desideri. Ogni campo è organizzato da una staff, che fa un incontro a freddo in autunno e riflette sulle esigenze emerse e sui bisogni dell’attualità. Le staff hanno comunque completa libertà. Individuano un tema, preparano una breve presentazione e la espongono al comitato generale per l’approvazione».
– Quand’è che un campo si può definire riuscito?
«Agape ha da tantissimo tempo adottato il metodo di apprendimento non formale. Le staff hanno certamente degli obiettivi loro, ma anche se questi non vengono raggiunti nel modo in cui si era pianificato non significa che l’attività generale non sia riuscita. Se le persone che partecipano sono stimolate alla riflessione e alla condivisione, per noi il campo ha centrato l’obiettivo. Qui ad Agape un campo spesso riesce perché si crea un’unione tra le persone. D’altra parte, il centro è stato creato proprio per questo! Mi viene in mente un campo di due anni fa, in cui i partecipanti erano metà migranti e metà europei. All’inizio tutto era all’insegna di una dicotomia tra tu e io. Dopo pochi giorni questi elementi si sono trasformati in un noi. Credo proprio che siano l’architettura e la storia di Agape a favorire questa unione. Qui tutti guardano nella stessa direzione, e si portano via dei pezzi di questa forza coesiva. È un luogo dove ci si sgancia da se stessi e ci si apre alla possibilità di una nuova comunità».
– C’è un’immagine di Agape che ti porti sempre dietro?
«Mi viene in mente un episodio di parecchi anni fa. Qui ad Agape, oltre alla croce in legno che si vede chiaramente, ci sono due simboli religiosi nascosti. Uno si trova in salone, sul palco, ed è il Chi Rho, monogramma di Cristo; l’altro è una frase in greco, in metallo, che si mimetizza nelle rocce della nostra chiesa all’aperto e che recita un verso della Prima lettera ai Corinzi, “Agape non verrà mai meno”. Ho detto nascosti perché è sì importante che questi simboli ci siano, ma non devono essere prepotenti, perché Agape vuole essere la casa di tutti.
Tornando all’episodio: era nostro ospite un ragazzo musulmano. Una mattina si è svegliato prestissimo e ha dipinto di rosso fuoco la scritta nella chiesa all’aperto. Lui pensava che fosse così “sbiadita” per via di una scarsa manutenzione. Per me questo suo gesto ha un enorme significato, perché lui ha dato valore a una cosa che non era sua, ma che è diventata sua in pochissimo tempo. Lui era qui da una sola settimana. In seguito gli abbiamo spiegato il perché la frase fosse nascosta, e lui ha pulito tutto. Ma è la scritta rosso fuoco la mia immagine di Agape: un posto dove ognuno può dare il suo, sentendosi parte di un’unica comunità».