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Il rischio di non avere più un pianeta blu

La campagna "Proteggi gli oceani" di Greenpeace a sostegno del Global Ocean Treaty, un trattato globale per la tutela degli oceani e la creazione di aree marine protette

Si parla spesso di inquinamento, di plastica nei mari, di danni per l’ambiente, ma forse meno spesso si riconosce come la crisi climatica abbia molte concause, anche molto diverse tra loro. Gli oceani sono uno degli ambienti che più risentono dei cambiamenti climatici e delle invadenze delle attività umane, tanto che c’è chi sostiene che sul lungo periodo il soprannome di "pianeta blu" potrebbe non essere più adatto per la Terra. Per evitare questo pericolo, nel 2018 sono iniziati i negoziati per un accordo globale che dovrà stabilire strumenti per la tutela della vita degli oceani e degli habitat marini. Le trattative per questo accordo, chiamato Global Ocean Treaty, si dovrebbero concludere nel 2020, e al momento sono promosse a livello mondiale da Greenpeace.

La campagna di raccolta di firme a sostegno del progetto parte da una scoperta fatta da una nave della flotta di Greenpeace, la Arctic Sunrise: per il terzo anno di fila i ricercatori a bordo dell’imbarcazione hanno effettuato test sulle acque dell’Artico, ma ciò che è emerso nell’ultima missione è segno di una profonda crisi per l’ecosistema oceanico. Non solo le temperature stanno aumentando, provocando anche lo scioglimento dei ghiacci artici, ma si sta riducendo notevolmente la quantità di fitoplancton, base della catena alimentare. «Questo può avere delle conseguenze a seguire su tutta la catena trofica e su tutto l’ambiente» spiega Giorgia Monti, responsabile della campagna Mare di Greenpeace. 

Quello dell’Artico è solo un caso, ma ben evidenzia una tendenza generale per tutti i mari del mondo. «Sicuramente l’ambiente va considerato nel suo insieme e va considerato come tutti questi impatti antropici insieme stanno avendo un impatto sui nostri mari: non si può eliminarne uno senza pensare all’altro» specifica Monti. Un insieme di cause che agiscono contemporaneamente e unite mettono a rischio i diversi ecosistemi marittimi: spesso, nel discorso comune, si tende a mettere in evidenza un solo elemento critico alla volta, ma occorrerebbe invece guardare al fenomeno nel suo complesso per poterlo capire e fronteggiare.«Gli scienziati dicono che entro il 2030 dobbiamo arrivare a tutelare almeno il 30% dei nostri oceani per salvarli: queste aree dovrebbero diventare dei santuari marini, in cui è vietata assolutamente ogni attività umana. Nel restante 70% dobbiamo comunque stare attenti, perché le attività umane vanno comunque tenute sotto controllo».

Si è partiti quindi da queste osservazioni per proporre il Global Ocean Treaty, un trattato globale che dovrebbe vedere d’accordo i diversi Paesi del mondo «per decidere regole precise per come gestire queste acque, ma soprattutto quello che chiede Greenpeace è che queste regole includano meccanismi di tutela:  se non metteremo dei forti meccanismi di tutela che permetteranno agli stati di identificare le zone più sensibili e di proteggerle e di mettere in atto veri meccanismi di protezione, questo trattato non avrà l’effetto voluto» spiega Giorgia Monti. Esplorazioni minerarie e trivellazioni petrolifere, tra i punti più critici per gli oceani, vanno di pari passo con la tecnologia, e sarà quindi compito degli Stati porre dei limiti a fini di tutela.

I mari sono fondamentali per il pianeta e per la vita umana. L’impegno di Greenpeace è quindi quello di creare un movimento di persone che proteggano un bene comune, gli oceani, per la vita del pianeta blu.

 

Foto di Salvatore Barbera from Amsterdam, The Netherlands - Arctic Sunrise in Libya

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