Yemen, quattro anni senza uscita
27 marzo 2019
Gli scontri a Ta’izz e Hodeidah indicano che una soluzione diplomatica e politica rimane lontana, mentre il tempo per i civili è ampiamente scaduto
Il 26 marzo segna l’ennesimo anniversario che sarebbe stato opportuno evitare: quello dei quattro anni di guerra in Yemen.
Naturalmente si tratta di una convenzione, perché in molti ritengono che la guerra fosse in corso già dall’autunno dell’anno precedente, quando i ribelli Houthi presero il controllo della capitale Sana’a, ma di certo a questa data va fatto corrispondere il vero salto di qualità del conflitto con il primo attacco aereo saudita contro l’aeroporto internazionale di Sana’a e l’aeroporto militare di Dulaimi. Da allora, il tentato colpo di Stato è diventato un conflitto permanente di cui non si intravede la fine.
Secondo le Nazioni Unite, in questi anni oltre 50.000 persone sono state uccise, mentre secondo i dati forniti da Unhcr sono due milioni gli sfollati interni di un conflitto che, per geografia e politica, ha permesso a pochissimi rifugiati di raggiungere l’Europa e che, paradossalmente, vede ancora oggi cittadini somali ed eritrei lasciare il proprio Paese per arrivare sulle coste yemenite, da cui ripartire per una nuova tappa del proprio percorso migratorio. In questi quattro anni gli oltre 19.000 raid aerei sul Paese, uno ogni due ore, sette giorni su sette, 24 ore su 24, hanno cancellato scuole, ospedali e infrastrutture, rendendo quasi impossibile procurarsi cibo e sempre più difficile essere raggiunti dagli aiuti umanitari, tanto alimentari quanto medici.
Ma i sauditi e i loro alleati non sono gli unici responsabili dell’aver trascinato a fondo quello che era già il Paese più povero della penisola arabica: anche i miliziani di Ansar Allah, i cosiddetti ribelli Houthi, sono responsabili di attacchi, violenze e intimidazioni nei confronti della popolazione civile. Proprio mentre ricorre questo indesiderato anniversario, uno dei fronti della guerra si è riacceso con combattimenti nella città di Ta‘izz, che hanno causato almeno 49 feriti e due morti, la chiusura di un ospedale e il grave danneggiamento di un altro, secondo un copione già visto in tutto il Paese. Inoltre, non si conosce il numero di civili bloccati tra le linee del fronte e senza possibilità di mettersi al riparo. Allo stesso modo, la notte tra il 24 e il 25 marzo è stata segnata da nuovi scontri a Hodeidah, il principale porto del Paese e via d’accesso fondamentale per gli aiuti umanitari, oggetto del cessate il fuoco negoziato a fine 2018 dalle Nazioni Unite ma mai del tutto applicato. Gli ultimi scontri, secondo i cittadini di Hodeidah, sono stati i più pesanti da quando il cessate il fuoco è entrato in vigore il 18 dicembre, e sono arrivati proprio mentre le Nazioni Unite hanno annunciato un accordo che illustra i dettagli di un reciproco ritiro militare previsto dall'accordo di tregua di Stoccolma.
Sia le forze ribelli Houthi, sia i soldati della coalizione a guida saudita, avevano accettato di ritirarsi dal porto di Hodeidah liberando la circolazione di petrolio e soprattutto di grano, che servirebbe a sfamare oltre tre milioni e mezzo di persone, oltre a riaprire canali umanitari per l’evacuazione delle persone più vulnerabili, ma gli scontri degli ultimi giorni sembrano allontanare una volta di più una soluzione politica. Ma il tempo per i civili è ampiamente scaduto: solo nel 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato di aver registrato 110.000 casi sospetti di colera e 190 decessi associati alla malattia in diverse province, un dato reso ancora più grave perché circa un terzo dei casi erano bambini sotto i cinque anni. Il conflitto dello Yemen è visto come una guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran, anche se gli Houthi, che controllano ancora Sana’a, negano di essere sostenuti direttamente da Teheran.
Tuttavia, la partecipazione internazionale alla guerra non si esprime soltanto con il supporto diretto, ma anche con la vendita di armi e munizioni da parte dei principali Paesi esportatori, tra cui la Germania e l’Italia. Tra questi, anche bombe prodotte in Italia dalla fabbrica RWM nello stabilimento di Domusnovas, in Sardegna, e la cui esportazione verso Paesi che violano i diritti umani è vietata dalla legge italiana sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento. Proprio per questo, in occasione di questo anniversario l’ong Save the Children ha lanciato una petizione online per chiedere al Ministero degli Esteri italiano di fermare la vendita di armi italiane, firmata da decine di migliaia di persone.