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La fortezza Bastiani

L’Europa asserragliata nel fortino e i nemici assenti ai suoi confini

Il pallone mezzo sgonfio vola alto sull’improvvisato terreno da gioco di erba secca e fango, verso una delle due sgangherate porticine. Gol. Corsa verso l’immaginaria bandierina, salto e esultanza a imitare quella di Ronaldo. O di Neymar. La forza della vita che si ripete uguale ovunque. Nati già in fuga.

Junis ha 13 anni ed è via dal “suo” Afghanistan da quando era poco più che neonato. Ha vissuto in Iran, Grecia e ora qui, a un passo letteralmente dal confine meridionale dell’Unione Europea. Parla cinque lingue, l’ultima è il serbo, imparato dagli operatori del campo di transito di Subotica, funzionari del governo di Belgrado che gestiscono gli aiuti provenienti dalla Ue e da numerose agenzie umanitarie e anche dall’otto per mille della Chiesa valdese. Con i genitori e quattro fra fratelli e sorelle vive nella struttura di accoglienza da alcuni mesi. Un limbo di container. Chi si trova a Subotica è perché ha fatto domanda di asilo per entrare in Ungheria. Si resta dunque in attesa soltanto del nulla osta per finire in un secondo campo, sempre lungo la linea di confine, questa volta però su suolo magiaro, alcune centinaia di metri più in là. In quel momento si avvia un altro iter per la valutazione della richiesta e i tempi si dilatano, diventano mesi, anche anni. Con un esito quasi sempre negativo, dato il pressoché totale blocco degli ingressi. Le strutture ungheresi sono assai peggiori di quelle già scadenti serbe. Non si esce e non si entra, filo spinato ovunque, una sola porta aperta, per tornare indietro. Chi vuole può andarsene liberamente, rinunciare al sogno dell’Europa di serie A. 

Sono 4500 circa le persone ospitate al momento nei 18 campi su suolo serbo, e centinaia che vivono in accampamenti di fortuna. Continuo è il tentativo di proseguire il viaggio: fra i boschi, nascosti nei camion, sui treni: “The Game” lo chiamano, il gioco, un continuo guardie e ladri in aree sempre nuove; il flusso di persone si è spostato in buona parte in Bosnia, nel tentativo di aprirsi strade alternative, verso la Croazia, la Slovenia, l’Italia. Ma la risposta è uguale ovunque. Filo spinato e respingimenti. L’accordo UE-Turchia del 2016 ha drasticamente ridotto gli arrivi via terra, che però non si sono mai bloccati del tutto.

A Subotica abbiamo condiviso una confezione di biscotti con i ragazzini, il gesto più spontaneo del mondo. Lo stesso atto, se compiuto poche decine di metri oltre, al di là del confine, se non autorizzati, è oggi un reato penale. In Europa, nel 2019. La norma fa parte del pacchetto che mira a minare le attività delle Ong nel paese, anche colpendole economicamente (ad esempio tassando al 25% le donazioni ricevute), e si tratta dell’ennesimo attacco alle libertà individuali e collettive messo in atto dal governo guidato per la quarta volta da Viktor Orbán.

Un pugno di km oltre confine c’è Szeged, terza città d’Ungheria. Il pastore Sandor Cserháti incombe con la sua figura massiccia sul piccolo Eduard. E’ giorno di festa nella minuscola chiesa luterana. E’ giorno di battesimo.

Se trent’anni fa crollava un muro che divideva di fatto in due l’Europa, oggi con meno scandalo se ne sono alzati molti altri. In Bulgaria, in Croazia, fra la Grecia e la Turchia. Il nemico è lo straniero, l’islamico invasore, deturpatore dei valori cristiani che il premier Orbán rivendica in nome dell’intero continente. «Ma la cristianità non ha bisogno di essere difesa, tanto meno da barriere. Questi reticolati difendono solo il nostro stile di vita», afferma convinto il pastore, che in questi anni si è molto speso nelle attività nei campi. Chissà se Eduard, che non ha smesso un secondo di piangere, fra trent’anni avrà ancora l’orizzonte bloccato alla vista da simili divisioni. «Temo di si. Cadranno forse muri reali, ma quelli dentro di noi chissà. Sono loro il primo pericolo», conclude Cserháti.

Gabor Ivanyi porta lo stesso nome di suo padre e come lui è pastore metodista. Ivanyi senior è una delle voci più autorevoli e fortemente critiche riguardo l’operato di Orbán: la sua Associazione evangelica ungherese, nata da una scissione ai tempi della guerra fredda in contrasto con la linea accomodante della chiesa metodista ungherese con l’allora partito comunista, non ha ricevuto dal governo Orbán lo status giuridico di ente ecclesiastico, e molti osservatori l’hanno interpretato come uno sgarbo personale del premier contro quello che un tempo era un amico intimo di famiglia, tanto da aver celebrato le sue stesse nozze e battezzato i suoi primi due figli. Ivanyi junior abita proprio a Szeged e con il padre è stato bloccato quando ad agosto si era recato al campo qui vicino per portare cibo e acqua ai richiedenti asilo: «La propaganda martellante di questi anni ha creato un clima di terrore. Il bavaglio alla stampa libera, la mortificazione della vita associazionistica ha fatto fermentare l’odio verso chi arriva da fuori, che come un virus ha attecchito in larghe fette di popolazione ed è ora un male difficile da curare».

Parole e azioni nobili di singoli. Le chiese come entità si dimostrano molto più timide, legate a filo doppio al governo centrale. La riforma in materia datata 2012, assai restrittiva, ha ridotto a 14 i gruppi religiosi riconosciuti dallo Stato e di fatto da un giorno all’altro ha negato lo status giuridico a storiche realtà presenti da tempo in Ungheria. Per chi è dentro, finanziamenti a pioggia. Per gli altri l’ostracismo. 

Non passa settimana che il premier Orbán non si faccia immortalare a inaugurare un campanile o tagliare il nastro di una scuola confessionale, per lo più cattoliche: le scuole di proprietà delle chiese ricevono il triplo dei finanziamenti rispetto a quelle statali e si stanno diffondendo in tutto il paese a grande velocità, raccogliendo un numero sempre maggiore di studenti, soprattutto nelle aree rurali.

Ecco dunque che debba capitare di ascoltare dalla bocca diVilmos Fischl, anch’esso luterano e segretario del Consiglio ecumenico delle chiese in Ungheria, che «non possiamo sacrificare le nostre tradizioni cristiane per la debolezza dei sistemi democratici, che non sono in grado di tutelarci dall’invasione islamica». La sua non è certa un’opinione isolata fra chi ha posizione di comando nelle comunità di fede. L’Ungheria, poi, è la prima nazione al mondo ad aver creato un Dipartimento per l’aiuto dei cristiani perseguitati. 14 milioni di euro (non certo una cifra astronomica) spesi nel 2018 per ricostruire chiese e edifici pubblici in alcune città di Siria e Iraq. Propagandato come una chiara dimostrazione che l’Europa sbaglia a considerare razzista il governo. Un “aiutiamoli a casa loro” - sempre e solo i cristiani però - cui fa da contrappunto la totale chiusura del proprio fortino domestico. 

Junis e Eduard sono così vicini eppure separati da un muro che rappresenta oggi il fallimento non solo dell’Europa, ma del modello di vita che abbiamo scelto noi che stiamo dentro la fortezza Bastiani.

 

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