Europa e religioni, giro di vite
28 novembre 2018
Le decisioni di alcuni governi, motivate da esigenze di sicurezza, sembrano preludere a una stretta sulla libertà di culto
Difesa dei confini e misure antiterrorismo, con un occhiolino alle pulsioni identitarie che attraversano l’Europa. È un mix di nazionalismo e volontà di sicurezza, quello sbandierato da vari leader del vecchio continente che, seppur con toni differenti, provano a irreggimentare la questione religiosa. Regole nuove e rigide, soprattutto verso tutto ciò che arriva da fuori, siano essi pastori o finanziamenti. E dove non arrivano le norme ecco che si ripropongono i tentativi dei governanti di piegare le attività religiose al potere politico, un pericoloso ritorno al passato. In Bulgaria è in discussione da mesi una legge che rappresenta una stretta senza precedenti sulle attività delle religioni e che mette a serio rischio la sopravvivenza di pressoché tutte le chiese del Paese.
Come ci ha raccontato la pastora Dimitrina Oprenova, vicepresidente dell’Alleanza battista mondiale incontrata durante i lavori dell’Assemblea dei battisti italiani, «I sussidi statali verrebbero riservati solo alle confessioni che contano un numero di membri superiore all’1% della popolazione – in Bulgaria solo la Chiesa ortodossa (70% circa della popolazione) e la Comunità musulmana (10%): escluse le altre, dalla cattolica a tutte le denominazioni protestanti e via dicendo. I ministri di culto di nazionalità bulgara devono aver studiato nel Paese; chi lo ha fatto all’estero (quasi tutti, dal momento che prima del 1999 non vi erano facoltà teologiche al di là di quelle ortodosse) ha bisogno di un’autorizzazione governativa ad personam per poter esercitare. Divieto di predicazione per i ministri di culto provenienti dall’estero (per confessioni con “numeri bassi” una risorsa indispensabile). E ancora: controllo totale di tutte le entrate che devono essere tracciate; per le donazioni provenienti da oltre confine servirà l’autorizzazione governativa».
La volontà sbandierata è quella di bloccare l’Islam radicale, le infiltrazioni terroristiche, mediante un rigido controllo di tutto ciò che arriva da fuori, ma il risultato è quello di togliere voce alle minoranze. Le proteste di piazza di queste settimane e le critiche dell’intero panorama ecclesiastico bulgaro, senza eccezioni, hanno portato il governo alla decisione di rimettere mano alla norma e di rinviare il voto finale, previsto per il 16 novembre.
Il 12 luglio 2011 il Parlamento ungherese ha adottato una legge in materia di religione e chiese ridefinendo quelle che possono godere di uno status giuridico. Viene sostituita la norma precedente, datata 1992, considerata unanimemente dalle maglie troppo larghe e che aveva concesso a molte associazioni di beneficiare degli aiuti pubblici senza averne diritto. Il riconoscimento formale è stato concesso a 14 dei 358 gruppi religiosi presenti in precedenza. In futuro, tutte le chiese vittime di tale ostracismo, fra gli altri i metodisti e gli anglicani ma non solo, nonché tutte quelle nuove, dovranno oltre a soddisfare una serie di requisiti formali, chiedere il riconoscimento a un ministro del governo, che «valuterà» le loro credenze religiose. Se il ministro sceglie di prendere in considerazione la richiesta, il parlamento deciderà se va riconosciuto lo status di chiesa. In questo processo, il diritto alla supervisione giudiziaria è negato. Lo status giuridico delle chiese sarà deciso non da una magistratura indipendente, ma da una maggioranza parlamentare.
La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato nel 2014 tale aspetto della legge. Anche qui a dar fede alle parole del premier Viktor Orbán, è l’Islam il grande nemico, i cui untori starebbero premendo ai confini della nazione, impegnata ina una strenua battaglia per difendere l’Europa intera dall’invasione. Che ovviamente non c’è, ma l’importante è ripetere il contrario dieci, cento volte, fino a farla diventare verità.
In Francia con motivazioni in fondo analoghe, legate alla sicurezza, il presidente Macron ha annunciato una prossima revisione della legge del 1905 che regola i rapporti fra Stato e religioni, un totem. Anche in questo caso sarebbero i soldi provenienti dall’estero al centro del mirino, ma non è sfuggita la norma che dovrebbe inserire una serie di parametri atti a verificare la «qualità» dei culti: si rafforzerebbe la vigilanza sui componenti dei direttivi delle chiese e delle associazioni a esse legate al fine di evitare infiltrazioni di estremisti, ma sarebbe prevista anche l’analisi di possibili slittamenti ideologici, difficile da definire in regole formali. Aspetto quest’ultimo che ha messo in allarme i rappresentanti delle religioni, e fra questi François Clavairoly, presidente della Federazione protestante di Francia: «Chi andrà a giudicare la qualità cultuale e in che maniera?»
L’Italia non ha molto da dire in questo campo, anzi. La testa ben ficcata nella sabbia, i governi che si sono succeduti continuano di legislatura in legislatura a ignorare le proposte di legge (molte con la collaborazione delle chiese evangeliche e di parlamentari evangelici) volte a superare finalmente la legislazione sui «culti ammessi», risalente al fascismo, fitta di controlli governativi sulla vita delle comunità di fede che ancora non hanno stipulato un’Intesa con lo Stato.
Tutto ciò ci da una lezione. Vigilare sulle libertà, compresa quella religiosa, è esercizio da non abbandonare mai. Le tentazioni di piegare i diritti secondo i vari desiderata vanno sempre di passo con le convenienze del potente di turno.