#MeToo (“Anch’io”) è l’hashtag lanciato dall’attrice americana Alyssa Milano in solidarietà non solo con le colleghe coinvolte nel «caso Weinstein» – il potente produttore di Hollywood denunciato da molte donne come violentatore seriale –, ma con tutte le altre donne che nella loro vita sono state almeno una volta vittime di violenza o molestie sessuali.
«Se tutte le donne molestate o violentate sessualmente scrivessero ‘Anch’io’ nel loro status – ha pubblicato la Milano su Twitter domenica scorsa – potremmo dare alle persone un’idea della gravità del problema».
In meno di 24 ore #MeToo è diventato virale, twittato da quasi mezzo milione di persone: una valanga di esperienze che trascina con sé il dolore di storie di violenza troppo spesso taciute, tenute nascoste, o anche ricordi legati ad abusi e molestie avvenuti su luoghi di lavoro, tra le mura domestiche, tra amici, a scuola. Anche nelle chiese.
Donne cristiane che occupano posti di leadership, come Beth Moore e Kay Warren, si sono unite al movimento online utilizzando l’hashtag #MeToo.
«Un mentore mi disse all’età di 25 anni che le persone non sarebbero state in grado di gestire l’ascolto dell’abuso sessuale e che questo avrebbe fatto sprofondare il mio ministero. Non è successo. #MeToo», ha twittato la popolare evangelista e scrittrice cristiana Beth Moore, fondatrice del Living Proof Ministries, un’organizzazione cristiana rivolta soprattutto alla formazione e al sostegno delle donne.
Kay Warren, co-fondatrice insieme al marito, il pastore Rick Warren, della megachurch Saddleback Church di Lake Forest, in California, ha scritto: «Un pedofilo mi ha molestato quando ero bambina, ci sono voluti decenni per guarire #MeToo».
Tra le migliaia di storie condivise, molte si sono consumate in un contesto ecclesiastico, a testimonianza del fatto che la violenza è fenomeno trasversale che si consuma anche in luoghi ritenuti “protetti”.
«Il co-pastore della chiesa di mio padre e mio padre, entrambi mi hanno molestato, uno intorno ai 6 anni, l’altro quando ne avevo 16 circa, probabilmente non guarirò mai», ha scritto una donna.
Tra le vittime anche degli uomini: «#MeToo. Sono un maschio violentato e molestato sessualmente per quattro anni tra i 12 ei 16 anni da un pastore e da uno studente più anziano. Capisco».
Campagne simili a #MeToo sono state lanciate in Francia (#balancetonporc) e in Italia (# quellavoltache) riscuotendo in questi giorni un enorme successo.
E poiché dietro ogni molestia e violenza c’è stato un esecutore, alcuni uomini hanno deciso di prendere la parola questa volta non per difendersi dalle accuse ma per autodenunciarsi. È stato lanciato così l’hashtag #Ihave (l’ho fatto): due parole dal potenziale dirompente nell’universo maschile, dove la cultura patriarcale e sessista giustifica la violenza, addossando spesso la responsabilità dell’abuso sulle vittime che hanno subito. Qualcuno ha anche coraggiosamente affermato che è giunto il tempo di cominciare a parlare apertamente degli effetti della millenaria cultura maschilista sulle relazioni di genere, e di provare a dire che esiste un modo diverso di vivere la propria maschilità.
«Ma un semplice click sui social che senso può avere?», qualcuno ha subito tuonato. Sì forse poco senso, eppure ha il sapore di qualcosa di diverso e nuovo.