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Il 6 agosto del 1967, cinque studenti d’ingegneria dell’Università di Santiago del Cile costituivano il gruppo musicale degli Inti Illimani (in lingua aymara, significa «Sole del monte Illimani»). «Gli Inti» sono entrati nella nostra vita dopo il golpe cileno del 1973 (una data che per me è ancora «l’11 settembre» per antonomasia). In quei giorni gli «Inti Illimani» erano in tournée in Italia, e così sfuggirono alla brutale repressione dei militari, che avrebbe fatto migliaia di vittime, di prigionieri, di scomparsi. Gli «Inti Illimani» rimasero in esilio fino al 1988. Lo stesso accadde a migliaia di cileni in fuga dalla dittatura di Pinochet: quella che ancora nessuno chiamava «la società civile» fece la sua parte accogliendo e ospitando moltissimi profughi.

Anche le chiese protestanti, pur nei loro piccoli numeri, parteciparono alla solidarietà (mi viene in mente il centro «Lombardini» di Cinisello Balsamo). In quello scorcio di anni Settanta, molti sentirono il Cile come una seconda patria del cuore. Gli «Inti Illimani» ci fecero scoprire l’immenso patrimonio musicale dei popoli andini, strumenti come il charango (chitarrina con la cassa in pelle di armadillo) o la quena (una sorta di flauto dolce). Il loro repertorio comprendeva canzoni militanti, da cantare in coro a pugno chiuso (Venceremos, El pueblo unido, Canción del poder popular), ma anche canzoni d’amore, canti popolari, pezzi strumentali (mi vengono ancora i brividi quando parte l’attacco di Alturas). Ho imparato a masticare un po’ di spagnolo ascoltando le loro canzoni, e un po’ di chitarra provando a suonarle. E anche ad Agape gli «Inti Illimani» facevano parte del repertorio delle cantate serali e notturne.

Il 21 settembre Maurizio Di Fazio su La Repubblica ha intervistato Jorge Coulón, l’unico superstite della formazione originaria – la quale, come succede alle band particolarmente longeve, ha vissuto innumerevoli uscite, arrivi, rientri e persino una scissione (nel 2014 tre di loro fondarono gli Inti Illimani Histórico). Due passi dell’intervista mi hanno fatto riflettere. In uno, Coulón, alla domanda se gli manca l’Italia, risponde: «Moltissimo. E credo che anche a voi manchi quell’Italia che noi rimpiangiamo». In realtà, l’Italia solidale, in lotta per i diritti, la giustizia, l’uguaglianza, non è scomparsa. Solo che pare travolta dall’Italia maschilista, razzista, complottista, sempre esistita ma oggi rumorosamente egemone. Quelle che sembrano scomparse, sono le speranze e le prospettive per un futuro più giusto e migliore. I nostri figli fuggono all’estero in cerca di lavoro, noi resistiamo sempre più debolmente al peggio che avanza.

Più avanti nell’intervista, Coulón afferma che «le canzoni non fanno le rivoluzioni», e che la canzone popolare non è per forza politica. Infatti, l’inno della Comune di Parigi, Le temps des cerises, era una canzone romantica. Quello che mi chiedo è: dov’è la canzone popolare di oggi? La canzone che – sia essa militante o sentimentale – accompagna, consola, interroga i movimenti, le proteste, il dissenso? Quelle poche volte che ci si ritrova a cantare, spuntano fuori gli evergreen di decenni fa – dagli spiritual ai cantautori, passando per gli «Inti Illimani», ma c’è una colonna sonora nuova per i tempi nuovi? Ritrovare il gusto di cantare la rabbia e i dubbi (e perché no, la fede) potrebbe forse aiutarci a non soccombere al senso di sconfitta e inutilità che troppo spesso ci ghermisce.

Immagine: Di Razi Sol - originally posted to Flickr as Inti Illimani, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6560359

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