Un altro premio Nobel è sceso in campo per criticare il silenzio di Aung San Suu Kyi sulla situazione dei Rohingya. Dopo la giovane Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace del 2014, è Desmond Tutu, vincitore dello stesso premio nel 1984, a richiamare la leader birmana a porre fine alla persecuzione del gruppo di minoranza musulmana Rohingya.
In una lettera aperta postata su Facebook, l’85enne arcivescovo anglicano e in prima linea contro l’apartheid, che definisce la leader della Birmania «amata sorella minore», scrive che «l’orrore» e «la pulizia etnica» in corso nello stato di Rakhine, lo hanno costretto a rompere il suo voto di silenzio.
«Sono ormai anziano, decrepito e formalmente in pensione, ma rompo il mio voto a rimanere in silenzio sugli affari pubblici spinto da una tristezza profonda per il dramma dei Rohingya, la minoranza musulmana nel tuo paese. Per anni ho avuto una tua fotografia sulla mia scrivania per ricordarmi dell’ingiustizia e del sacrificio che hai sopportato per via del tuo amore e del tuo impegno a favore della gente del Myanmar. Sei stata simbolo della giustizia».
«Il tuo ingresso nella vita pubblica ha alleviato le nostre preoccupazioni per la violenza perpetrata ai danni dei Rohingya. Ma ciò che alcuni hanno definito “pulizia etnica” e altri “un lento genocidio” non si è fermato, e anzi di recente si è accelerato».
Associandosi al crescente numero di leader mondiali che invitano Aung San Suu Kyi ad agire, Tutu scrive: «Sappiamo che non esistono differenze naturali tra buddisti e musulmani. Non importa se siamo ebrei o indù, cristiani o atei: siamo nati per amare senza pregiudizi. La discriminazione non è una cosa naturale; viene insegnata. Mia cara sorella: se il prezzo politico della tua ascesa alla più alta carica del Myanmar è il tuo silenzio, allora quel prezzo è troppo alto. Un Paese che non è in pace con se stesso, che non riconosce e non protegge la dignità e il valore di tutta la sua gente non è un paese libero. È incoerente che un simbolo di rettitudine guidi un simile Paese e questo accentua il nostro dolore».
Senza troppi giri di parole, Tutu rivolge un duro appello alla leader de facto del Myanmar: «Le immagini della sofferenza dei Rohingya ci colmano di dolore e angoscia. Sappiamo che tu sai che gli esseri umani possono apparire diversi e pregare in modo diverso – e alcuni possono avere una potenza di fuoco superiore a quella di cui altri sono dotati – ma nessuno è superiore e nessuno è inferiore. Sappiamo che sotto sotto siamo tutti uguali, membri di un’unica famiglia, la famiglia umana. Mentre assistiamo all’evolversi dell’orrore preghiamo che tu possa essere di nuovo coraggiosa e resiliente. Preghiamo perché tu faccia sentire la tua voce per la giustizia, i diritti umani e l’unità del tuo popolo. Preghiamo perché tu intervenga in questa crisi crescente e riporti il tuo popolo sulla retta via. Che Dio ti benedica».
Ma nonostante le pressioni ricevute da più parti, Aung San Suu Kyi finora non ha mosso un dito per i Rohingya e ha difeso l’azione militare dell’esercito nello Stato di Rakhine, criticando l’enorme disinformazione che a suo dire sarebbe stata messa in atto in questi mesi.
Intanto è partita una petizione, al momento firmata da oltre 386mila persone, che chiede venga revocato il Premio Nobel alla leader birmana. Dal canto suo la Fondazione Nobel, in una mail inviata venerdì scorso da Olav Njolstad, capo dell’istituto norvegese dei Nobel, afferma che né le disposizioni del fondatore del premio Alfred Nobel, né le regole della fondazione prevedono possa essere revocato il premio Nobel per la pace assegnato nel 1991, che Aung San Suu Kyi aveva ricevuto (si legge nelle motivazioni) per «la sua lotta non violenta per la democrazia e i diritti umani» durante le dittatura militare.