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Usa, la rabbia e lo sdegno delle comunità religiose per la revoca del Daca

La decisione del presidente Trump di annullare il programma di protezione per i minori giunti clandestinamente negli Stati Uniti entro il loro sedicesimo compleanno ha provocato la decisa opposizione di un vasto numero di comunità religiose

«Siamo tristi ma soprattutto arrabbiati». Queste parole del pastore John C. Dorhauer, presidente della Chiesa unita di Cristo (Ucc), esprimono bene i sentimenti che animano le comunità religiose statunitensi dopo la decisione del presidente Donald Trump di revocare il Daca (Deferred Action for Childhood Arrivals), il programma di protezione promulgato dall’amministrazione Obama e che dal 2012 permetteva ai minori di 16 anni giunti clandestinamente negli Stati Uniti di poter usufruire di un permesso lavorativo e di non rischiare la deportazione.

La decisione di Trump ha suscitato un larghissimo coro di proteste, nel quale si possono annoverare gli stessi consulenti religiosi del Presidente, come il pastore Tony Suarez, vice presidente della Conferenza nazionale dei leader cristiani ispanici. La cancellazione del Daca mette a rischio di deportazione 800 mila giovani che, ha fatto notare in un comunicato stampa il vescovo Michael B. Curry, presidente della Chiesa episcopaliana, «sono stati portati negli Stati Uniti da bambini, quindi senza una loro attiva volontà, hanno un’identità culturale americana, perché sono cresciuti qui e spesso non hanno memoria dei loro paesi d’origine, e oggi lavorano e contribuiscono al benessere della nostra nazione».

«Trump ha voltato le spalle a persone qualificate e gran lavoratrici», è il commento del pastore John L. McCullogh, presidente del Church World Service che echeggia uno sdegno ben presente nelle dichiarazione di moltissimi leader religiosi, secondo cui la decisione di Trump è «una storica ingiustizia e una violazione della dignità umana», come dice suor Patricia McDermott, presidente delle Sorelle della misericordia delle Americhe, e «moralmente sbagliata e politicamente miope», come scrive il rabbino Jonah Dov Pesner, vice presidente dell’Unione per la riforma dell’ebraismo.

La revoca del Daca entrerà in vigore tra sei mesi. «Un tempo che dobbiamo utilizzare saggiamente per sostenere i diritti di chi il prossimo marzo si ritroverà nell’incertezza più totale riguardo al proprio futuro», ha affermato ancora l’episcopaliano Curry, descrivendo una strategia condivisa da tutte le comunità di fede. L’idea è di fare costante pressione sui membri del Congresso e del Senato affinché venga finalmente approvato con un’azione bipartisan il “Development, Relief, and Education for Alien Minors”, conosciuto come DREAM Act, presentato al Congresso nel 2001 e rimasto da allora lettera morta.

Una linea d’azione che viene perseguita già da queste ore con molta determinazione. «Lo status degli 800mila giovani fino ad oggi protetti dal Daca non è negoziabile», ha dichiarato l’evangelicale Jim Wallis, direttore della rivista Sojourners, nel presentare la bozza di una lettera tipo da inviare ai membri del Congresso. «Questo è il tempo di lanciarci in un’azione ferma, prolungata e che non potrà considerare un “no” una risposta adeguata per i diritti di 800mila giovani onesti, lavoratori, e per coloro che in futuro si ritroveranno nella loro situazione», ha aggiunto il luterano William Lyons.

Si annunciano sei mesi di intenso lavoro di lobby che faranno certamente leva anche sui politici repubblicani, tra cui lo stesso portavoce della Casa Bianca, Paul Ryan.

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