Una vittoria (parziale) che il presidente Trump attendeva con ansia: ieri, 26 giugno, la Corte Suprema ha accolto parzialmente il Travel Ban, noto da tutti come Muslim Ban, che limita l’accesso negli Usa da alcuni paesi musulmani (Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen). Secondo i giudici, l’ordine esecutivo è applicabile, ma solo nei casi in cui i potenziali immigrati non abbiano contatti familiari, lavorativi o personali negli Usa. In poche parole, da giovedì entra negli Usa chi ha parenti, legami di studio o lavoro o «una buona parola» da parte di enti o organizzazioni americane, restano fuori gli altri, almeno fino a ottobre. Una doccia fredda soprattutto per i rifugiati, siriani e non, che vedono sbarrarsi una porta già semichiusa, e per quanti in questi mesi hanno protestato contro l’atto del presidente, che ne rivendica l’importanza per la sicurezza nazionale.
Lo scontro politico-giuridico, di cui abbiamo dato conto più volte, resta aperto, in quanto la decisione definitiva dei giudici arriverà a ottobre, con l’ascolto delle parti e l’esame delle sentenze delle Corti d’Appello che avevano bloccato l’esecuzione del provvedimento. Intanto il periodo di validità (90 giorni per i viaggiatori, 120 per i rifugiati) sarà quasi del tutto esaurito: ci sarà quindi spazio per un nuovo «bando»?
Per il momento associazioni e chiese non si danno per vinte e continuano le loro azioni di sensibilizzazione, in un contesto sempre più infuocato.
Nelle ultime settimane infatti è cresciuta la tensione, soprattutto lo scorso 10 giugno, quando Act for America, organizzazione attiva contro la presunta minaccia islamica alla sicurezza nazionale, (per alcuni, tra cui il Southern Poverty Law Center, la più grande organizzazione anti-islam degli States, con i suoi 525.000 membri), ha organizzato in ventuno città americane, tra cui New York, Dallas, Atlanta, Chicago e Seattle, marce «anti-sharia». Le manifestazioni sono sfociate in scontri e arresti, con contro-manifestazioni di rifiuto all’odio e alla paura e sostegno alla popolazione musulmana.
Anche ventidue leader religiosi di diversa provenienza geografica e orientamento teologico (riformati, cattolici, luterani, ebrei…) si sono pronunciati contro la più grande azione anti-islam mai organizzata da Act for America non a caso durante il Ramadan, affermando in una lettera il diritto costituzionale della libertà religiosa e lanciando un appello a esprimere la propria solidarietà e a partecipare a una delle veglie ed eventi organizzati il 10 giugno nelle città dove erano previste le marce. Ma anche dopo tale data, hanno ricordato i leader, è importante informarsi sul mondo musulmano, costruire relazioni personali e tra le comunità religiose, aiutare la propria chiesa a farlo per superare questo clima di odio e intolleranza.
Nel documento, sottoscritto fra gli altri dal reverendo J. Herbert Nelson, della Chiesa presbiteriana (PcUsa) e da Jim Winkler, segretario generale del Consiglio nazionale delle chiese statunitensi, si dichiara: «Non possiamo e non potremo mai supportare gruppi d’odio che prendono di mira e minacciano altri membri della nostra comunità. Rifiutiamo il razzismo e l’odio, il fanatismo e la paura e chi li diffonde». La lettera si schiera apertamente contro Act for America e le sue posizioni: «Rifiutiamo decisamente questa visione, così come lo fa la maggioranza del popolo americano, che crede che tutti abbiano il diritto di praticare il loro credo religioso. Siamo grati che la libertà religiosa sia sancita dalla nostra Costituzione e affermiamo che proteggere i diritti dei musulmani e dei membri di tutti i gruppi religiosi è un valore americano fondamentale. Siamo grati che la nostra fede ci chiami ad amarci gli uni gli altri e a resistere al male dell’odio. Ci impegniamo a favore della diversità, dell’accettazione, della resilienza e della compassione per le persone di ogni fede e provenienza».
La lettera si apre e si chiude con le stesse parole, un messaggio che sentiremo risuonare ancora in questa calda estate: «L’odio non ci dividerà. Siamo fatti gli uni per gli altri. Insieme, siamo meglio».