Cinquant’anni fa cominciava sulle coste sudorientali del Mediterraneo quella che a posteriori viene chiamata “guerra dei sei giorni”, il conflitto che dal 5 al 10 giugno del 1967 segnò in modo indelebile i confini e l’identità di due popolazioni divise e in conflitto: palestinesi e israeliani.
Un conflitto tra i più brevi eppure più significativi del Novecento, al punto che ancora oggi l’ipotesi della cosiddetta “soluzione a due Stati” si regge sull’equilibrio spezzato da questa guerra. Tra il 1948 e il 1967, infatti, la Striscia di Gaza venne occupata dall’Egitto e l’attuale Cisgiordania dalla Giordania, la quale si spartì con Israele anche Gerusalemme. Fra il 1949 e il 1967 i confini rimasero invariati, ma nel 1967, con la “guerra dei sei giorni”, Israele occupò tutta l’attuale Cisgiordania, compresa l’intera Gerusalemme, oltre a Gaza, il Golan e il Sinai, che verrà restituito diversi anni dopo all’Egitto in cambio del trattato di pace. Queste nuove conquiste territoriali non verranno mai riconosciute dalle Nazioni unite, che con le risoluzioni 242 e 338 chiese a Israele di ritirarsi ai territori precedenti al 1967 – di qui il nome – riconoscendo invece le conquiste del 1948. Israele, al contrario, comincia a costruire sempre più insediamenti sui territori che occupa al di fuori della legalità internazionale. Sono oggi il principale ostacolo, da parte israeliana, al trattato di pace.
È un anniversario che, al di là del valore simbolico del mezzo secolo trascorso, porta con sé una grande attualità, testimoniata da storie ed eventi sempre nuovi. Tra gli altri contributi, questa mattina le riviste indipendenti Osservatorio Iraq e Qcode hanno pubblicato Walking the Line, un progetto giornalistico dal basso, realizzato da Cecilia Dalla Negra e Christian Elia, che, secondo le parole di Cecilia Dalla Negra, «cerca di ripercorrere quella linea verde che avrebbe dovuto essere il confine tra lo Stato di Israele e lo Stato di Palestina che non ha mai visto la luce. Incontrando sulla strada le persone e le storie, le testimonianze, raccogliendo memoria perché non sia rimossa e perché questo anniversario non rimanga soltanto una celebrazione fine a se stessa».
La questione israelo-palestinese, infatti, non è soltanto una questione di storia, bensì è estremamente concreta e attuale. Tra gli ultimi fatti, sabato 27 maggio si è concluso uno sciopero della fame, portato avanti dai detenuti palestinesi per 40 giorni, che per partecipazione e durata è stato fuori dal comune e ha portato con sé un significato politico e umano quasi inedito. «Questo sciopero della fame – racconta ancora Cecilia Dalla Negra, che si trovava in Palestina quando venne avviata la protesta – è uno strumento di lotta tradizionale dei detenuti politici palestinesi. In questo caso specifico è stato lanciato il 16 aprile scorso per ribellarsi in modo collettivo contro il regime in cui i detenuti vengono trattenuti nelle carceri israeliane, spesso in violazione del diritto internazionale della Convenzione di Ginevra».
La questione dello status dei detenuti palestinesi non è una novità: già nel 2003, poco dopo la cosiddetta “seconda Intifada” del settembre del 2000, l’organizzazione internazionale Fidh, International Federation for Human Rights, aveva denunciato il fatto che Israele non riconoscesse ai detenuti palestinesi lo status di prigionieri di guerra, trattandoli invece come criminali politici o terroristi, una condizione che permette il trattenimento amministrativo preventivo. La posizione della Convenzione di Ginevra in questo senso è controversa, perché due documenti sono in parziale conflitto tra loro, almeno secondo Israele. La terza Convenzione di Ginevra, del 1949, concede lo status di prigioniero di guerra a chi combatte in movimenti di resistenza organizzata che rispondono alle condizioni dell’articolo 4, che richiede la presenza di un comandante e “un simbolo sempre uguale e riconoscibile a distanza”. Israele ha ratificato questa convenzione, mentre non ha mai aderito al Primo Protocollo Addizionale, del 1977, che si applica ai conflitti armati contro occupazione straniera e che darebbe in teoria lo status di combattenti legittimi anche a coloro che non indossano uniformi o hanno un marchio distintivo, per via della natura del conflitto. «Non si è riusciti questa volta a intaccarlo però rispetto al passato il risultato di questo sciopero rappresenta un incredibile passo avanti».
Tra le richieste più concrete portate avanti con lo sciopero della fame si ritrovano questioni discusse da anni, come il diritto alle visite familiari, un’adeguata cura medica che non sia a carico dei detenuti, la fine di quelle procedure che, spiega Cecilia Dalla Negra, «vedono un processo molto lungo e complesso per i continui trasferimenti tra le carceri e le aule dei tribunali». Oltre alla richiesta di dignità, questa protesta ha veicolato un messaggio politico forte, la richiesta di un’unità da ritrovare soprattutto all’interno delle carceri che rimangono per i palestinesi un punto di riferimento politico importantissimo. «Ero in Palestina, a Ramallah, durante quei giorni – ricorda Dalla Negra – e le tende della solidarietà popolare che sono comparse in tutte le città e i villaggi sono state qualcosa che non si vedeva da molti anni, quindi si è riconfermata una causa, quella della lotta per i diritti dei prigionieri politici, assolutamente in grado ancora di risvegliare le coscienze palestinesi e di far sentire il popolo unito».
Sui risultati dello sciopero c’è stata a lungo incertezza, perché sono state necessarie oltre 20 ore di trattative che hanno portato al riconoscimento di alcuni diritti, dal raddoppio delle visite familiari per chi ne aveva soltanto una al mese, fino alla riammissione delle visite per moltissimi detenuti a cui erano vietate, tra cui 140 bambini, degli accordi sulle detenute donne, che finalmente potranno essere riunite tutte nello stesso carcere, anche loro rivedere mariti e figli, risolto pare anche il nodo dei trasporti, tra le prigioni e le aule di tribunale con procedure più semplici, accoglienza della richiesta di avere cibo e carta igienica, come si può capire erano richieste che parlavano di fondamentali diritti umani negati. «Questo è sostanzialmente il nodo dell’accordo, e lo stesso Barghouti afferma che l’80% delle richieste dei prigionieri sono state soddisfatte. C’è da vedere se Israele lo rispetterà».
Sono stati tra i 1.100 e i 1.500 i detenuti che hanno preso parte a questo sciopero della fame, che era cominciato il 16 aprile e ha sollevato tensioni tra Israele e i palestinesi, con proteste in supporto dei manifestanti che sono diventati scontri in Cisgiordania e sul confine con la Striscia di Gaza. La figura centrale di questa protesta è stata Marwan Barghouti, il politico di più alto livello tra i detenuti palestinesi in Israele, che ha ribadito ancora una volta la necessità di superare la pratica israeliana della detenzione senza processo che è stata applicata a migliaia di prigionieri sin dagli anni Ottanta, difesa da Tel Aviv come fondamentale per prevenire attacchi e proteggere i luoghi sensibili. Barghouti venne accusato di aver ucciso dei cittadini israeliani durante la “seconda Intifada” e condannato a cinque ergastoli nel 2004, ma ancora oggi si pensa che la maggioranza dei cittadini palestinesi guardi a lui come prossimo presidente, come unica figura politica in grado di raccogliere l’eredità di Abu Mazen, rappresentante di una leadership ormai al tramonto e che ha bisogno di un cambio generazionale per continuare a essere un interlocutore autorevole. «Barghouti è stato l’ultimo a porre fine allo sciopero della fame per assicurarsi che tutti gli altri prigionieri non subissero ritorsioni, che nel corso dei 40 giorni ci sono state, e ha parlato di un risultato straordinario, di una nuova unità del movimento dei prigionieri politici palestinesi, e ovviamente si riconferma come leader indiscusso che a mio avviso sta cercando anche di lavorare per la possibilità di essere candidato dalle carceri. Certo – conclude Cecilia Dalla Negra – , per diventare un interlocutore internazionale riconosciuto Barghouti dovrebbe essere scarcerato, ma questo non è all’ordine del giorno, anche se parte delle organizzazioni dei prigionieri palestinesi sono ottimiste. Ricordiamo che Marwan Barghouti è considerato un terrorista dalle autorità israeliane, ma è un punto di riferimento fondamentale per il popolo palestinese».