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Dalla prima domenica di avvento del 2017, la Chiesa cattolica francese introdurrà nella sua liturgia una nuova traduzione del Padrenostro (in realtà pubblicata già nel 2013), che sostituisce la frase «et ne nous soumets pas à la tentation» con «et ne nous laisse pas entrer en tentation». Questa scelta viene compiuta non solo in seguito a decenni di dibattiti interni, ma anche per un’esigenza ecumenica, essendo la nuova versione diffusa nelle traduzioni francofone contemporanee.

E in Italia? Può essere interessante fare il punto della situazione alla vigilia della pubblicazione della Bibbia della Riforma (entro ottobre uscirà il Nuovo Testamento). La situazione è curiosa. Nelle liturgie ufficiali, infatti, le posizioni sono piuttosto ferme, da quando in ambito protestante la Riveduta (la «Luzzi» del 1924) introdusse la traduzione «non esporci», mentre la liturgia cattolica continua a preferire il «non indurci» (come già Diodati nel 1641). Fra le traduzioni recenti, invece, si assiste a una diversificazione rispetto alla tradizione. La nuova bibbia della Conferenza episcopale italiana (2008) propone un «non abbandonarci alla tentazione» (si discute se adottarla anche in ambito liturgico) e la Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente (Tilc) traduce «fa’ che non cadiamo nella tentazione».

Questa incertezza nasce dalla difficoltà di rendere il verbo greco eisfero: «portare in», «far entrare». Gerolamo lo tradusse in latino con inducere e di qui viene l’italiano «indurre», solo apparentemente più letterale. La ragione della traduzione di Luzzi fu spiegata bene da Giovanni Miegge: «indurre» in italiano implica l’idea di esercitare una pressione su qualcuno, perché faccia qualcosa, magari contro la sua volontà, ma il verbo greco non vuole assolutamente dire questo. «Esporre» è certo «meno vigoroso, meno elegante e sembra un’attenuazione, ma per lo meno non si presta allo scandalo» (da Il Sermone sul Monte, Claudiana, 1970, p. 216).

Ma che cosa significa «far entrare nella tentazione»? Luzzi (citato in Miegge, op. cit. pp. 218-219) parafrasava così il senso delle parole di Gesù: Non condurci in situazioni tali di prova, che diventino per noi una tentazione. In parole povere, Gesù constata che nella vita noi dobbiamo affrontare prove che possono anche diventare tentazioni ad abbandonare Dio. Chiediamo, dunque, al Signore di non farci entrare in situazioni di tale difficoltà. Come sottolineano diversi esegeti, qui Gesù non vuole sviluppare un discorso teologico sulla teodicea, sull’origine del male e della sofferenza. Dobbiamo piuttosto leggere questa affermazione del Padrenostro nell’ottica degli antichi, secondo la quale Dio conduce la nostra vita, tenendola saldamente nelle sue mani. Il fatto che la versione del Padrenostro di Matteo aggiunga, rispetto a Luca, la frase «Liberaci dal male» rende ancora più evidente il concetto in tutta la sua semplicità.

Come tradurre, dunque, il verbo eisfero, rispettandone l’immediatezza senza travisarne il significato? Nel comitato della Bibbia della Riforma la discussione è aperta, e stiamo lavorando sulle diverse proposte che ci arrivano: da chi propone di rimanere su «esporre» fino a chi preferirebbe, più letteralmente, «non farci entrare nella prova». Se qualcuno ha un’alternativa, si faccia avanti! (Pagina Facebook «Bibbia della Riforma» oppure il sito www.societabiblica.eu).

Immagine: By Cosimo Rosselli - Web Gallery of Art:   Image  Info about artwork, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4539495