Per comprendere quanto accaduto domenica 9 aprile in Egitto non esistono chiavi di lettura semplici. La rivendicazione da parte del Daesh, o gruppo Stato islamico, permette a molti analisti di parlare di “attacco ai cristiani” o di un’intensificazione dello “scontro di civiltà”, ma si tratta di interpretazioni spesso parziali e lacunose che dimenticano la centralità dell’Egitto contemporaneo nel mondo arabo.
Secondo Elisa Ferrero, lettrice di Arabo all’università cattolica di Milano, che racconta le vicende egiziane attraverso il suo blog, «più ancora che in altri periodi, questo attacco è stato sentito come un vero e proprio attacco al cuore della cultura egiziana».
L’attentato a due chiese copte è stato raccontato come un attacco alla comunità cristiana. Quale senso va dato?
«Sicuramente è stato un attacco diretto ai cristiani copti in Egitto, colpiti in quanto tali dal Daesh, che da mesi e mesi sta minacciando la comunità cristiana egiziana, come del resto ha fatto in altre aree del Medio Oriente. In effetti l’attenzione del Daesh, che sta perdendo terreno in Iraq e Siria, si è spostata e concentrata sul Sinai sino a penetrare nel territorio della valle del Nilo. In secondo luogo, però, è un attacco a tutta la società egiziana e alla cultura secolare di convivenza che ha sempre caratterizzato l’Egitto: si colpiscono i copti, che sono il punto debole del tessuto sociale egiziano, per indebolire tutta la società egiziana e lo Stato egiziano».
Che cosa significa che i copti sono il punto debole del tessuto sociale egiziano?
«Significa che è molto facile colpirli, tenendo anche conto che ci sono alle spalle decenni e decenni di propaganda settaria da parte dei gruppi islamisti nati e cresciuti in Egitto, quindi c’è anche un terreno fertile di pregiudizi che il Daesh spera di sfruttare. C’è poi un aspetto materiale: ancora oggi i cristiani in Egitto, nonostante quello che dice la costituzione, non godono degli stessi diritti civili degli altri: alcune professioni sono loro precluse, per esempio non possono accedere all’intelligence e ad alcune carriere di massimo livello nelle forze di sicurezza».
È sempre stato così?
«No. La situazione è molto diversa rispetto all’epoca liberale, all’inizio del Novecento, quando i copti erano la leadership del Paese ed esprimevano anche dei primi ministri. Oggi le cose sono molto cambiate: questo è il risultato di un lungo percorso storico che vede l'origine negli anni Settanta con Anwar Sadat, che si alleò con i movimenti islamisti facendo sì che i cristiani si ritirassero sempre di più, al punto che oggi la questione copta è sempre di più una materia di sicurezza. Fino a qualche anno fa costruire le chiese richiedeva il permesso diretto del presidente, oggi c’è una legge che ha migliorato leggermente le cose ma in maniera abbastanza formale piuttosto che sostanziale, senza mettere in dubbio la questione della sicurezza. Del resto, costruire una chiesa in Egitto oggi, soprattutto in alcune zone rurali, significa suscitare l’ira dei gruppi fondamentalisti che sono annidati in questi luoghi».
Quando al-Sisi prese il potere nel luglio del 2013 aveva promesso, tra le altre cose, di farsi protettore delle minoranze. È soltanto una maschera?
«Diciamo prima di tutto che in realtà tutti i presidenti, anche Mubarak, avevano indossato questa maschera. Al-Sisi forse è quello su cui questa maschera pesa meno, perché va detto che ha cambiato davvero molto il discorso pubblico almeno nei confronti dei copti. Sulla carta ci sono stati dei grossi avanzamenti, ma nella pratica ancora tutto dev’essere applicato».
Gli attentati di domenica rappresentano un suo fallimento politico e personale?
«Bisogna riconoscere che anche in Europa è estremamente difficile prevenire attacchi terroristici di singoli kamikaze in certe situazioni. Comunque in Egitto adesso c’è un grosso dibattito sulla questione del fallimento della sicurezza, perché si sapeva che i copti erano un obiettivo e soprattutto che questo obiettivo poteva essere raggiunto durante le festività cristiane. Era già successo in passato, per esempio a Natale. Era prevedibile che fosse un giorno a rischio, e infatti va detto che le forze di sicurezza erano presenti davanti alle chiese. Ad Alessandria in parte ha funzionato, perché il kamikaze non è riuscito a entrare nell’edificio, altrimenti avrebbe compiuto una strage decisamente peggiore. Il grosso punto interrogativo è invece a Tanta, dove le forze di polizia erano presenti ma dove questo personaggio, che a tutti era sembrato sospetto, è riuscito comunque ad arrivare all’altare e farsi esplodere.
Proprio per questo il capo della sicurezza della provincia di Gharbiyya, la regione in cui si trova Tanta, è stato subito licenziato, quindi lo stato stesso ha riconosciuto un certo fallimento».
Tutto questo può mettere in difficoltà la leadership di al-Sisi?
«Nessuno per adesso può metterlo veramente in discussione. Certo, c’è malcontento tra i copti per questa situazione, per questa mancata protezione, e qualcuno lo manifesta apertamente, però è molto difficile attaccare il presidente perché di fatto non c’è un’alternativa. La paura è che se anche al-Sisi, che rappresenta un modello di Stato forte, si dovesse dissolvere, allora non rimarrebbe nulla. Paradossalmente anche i copti si rendono conto che senza al-Sisi, senza questo Stato oppressivo e autoritario, rischierebbero forse ancora di più».
Ora cosa potrà succedere?
«Adesso sono stati dichiarati tre mesi di stato d’emergenza che probabilmente non cambieranno molto le cose: in Sinai è in vigore dal 2014, ma di fatto non ha migliorato molto la situazione nemmeno lì. Questa è una lotta che ha numerosi altri risvolti, non solo in Egitto ma in tutta l’area del Medio Oriente».
Ecco, perché proprio l’Egitto? Per la sua posizione strategica? Per il suo multiculturalismo? Per i suoi comportamenti in politica estera?
«È una combinazione di tutti questi fattori: l’Egitto è il gigante arabo nella zona mediorientale con i suoi 90 milioni di abitanti. Lo è dal punto di vista demografico, ma anche da quello storico, perché è il più antico stato della regione ed è un simbolo stesso del mondo arabo.Conquistare, destabilizzare o spezzare l’Egitto sarebbe simbolicamente un messaggio molto forte, una conquista di potere notevole. La convivenza secolare tra cristiani e musulmani nel Paese dà molto fastidio, così come tutta la ricchezza culturale che l’Egitto va riscoprendo in reazione e in risposta al pensiero politico islamista, che in Egitto è stato di fatto sconfitto dalla società stessa nel 2013 rimuovendo Morsi dal governo. Quella attuale è una visione della società completamente diversa da quella dell’islamismo uniformante di cui il Daesh e altri gruppi jihadisti sono il braccio armato ma che hanno un’origine ideologica comune ad altri movimenti. Da una parte, infatti, c’è l’idea di una società omogenea, uniforme, solamente islamica, e dall’altra invece quella di una società ricca di diversità, multiculturale e multireligiosa, che vive con le proprie differenze. È in corso un grande scontro di identità: l’Egitto incarna un po’ tutto questo e in più ha anche rappresentato la prima risposta di popolo, e non solo di governo, contro le correnti islamiste e per questo sicuramente è un boccone ghiotto per il Daesh e per i gruppi che all’Isis fanno riferimento. C’è poi senz’altro una posizione geografica strategica, con il canale di Suez e la collocazione a metà strada tra il Nordafrica e il Medio Oriente, c’è la vicinanza con Israele e con la questione palestinese, e sicuramente c’è anche un intento punitivo per la Siria, perché ultimamente al-Sisi ha sostenuto Assad contro i ribelli sunniti. Insomma, una combinazione davvero complessa».