Taiwan potrebbe diventare il primo paese asiatico a celebrare matrimoni civili gay. In dicembre il Parlamento ha approvato un disegno di legge in tal senso, e il 24 marzo la Corte costituzionale ha esaminato due ricorsi relativi al rifiuto nel 2013 di registrare il matrimonio come richiesto dell’attivista Chi Chia-wei. Significativamente, l’amministrazione municipale di Taipei, che aveva respinto la richiesta, ora presenta ricorso insieme all’attivista, dichiarando che ammettere il matrimonio gay «non cambia l’essenza del matrimonio, ma ne concretizza i valori».
Questo caso, insieme a quello di un uomo cui era stato impedito di assistere il compagno, malato terminale, hanno fatto molto discutere negli ultimi mesi, e la norma del Codice civile che prevede soltanto il matrimonio fra un uomo e una donna viene definita incostituzionale e discriminatoria.
Non senza fondamento, dunque, nei primi giorni del 2017 la presidente della Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan), Tsai Ing-wen, dichiarava che il processo verso l’estensione del matrimonio alle persone dello stesso sesso era passato dalla fase di «conflitto» a quella di «dialogo».
Entrata in carica lo scorso maggio, prima donna a ricoprire tale incarico, si è sempre mostrata favorevole al riconoscimento dei diritti lgbt, favorendo un deciso passo avanti in un dibattito che va avanti da almeno un decennio senza riuscire ad approdare a una proposta concreta. Il 26 dicembre, infatti, il Parlamento ha approvato in prima lettura il disegno di legge (che tra l’altro prevede l’adozione per le coppie gay), che presto sarà esaminato in seconda lettura. La maggioranza è favorevole, ma anche consapevole che occorre creare un consenso più ampio all’interno del paese.
La materia è infatti quanto mai controversa, ha mobilitato le forze politiche, le comunità religiose, il diritto e la società civile, e il paese è diviso a metà. Negli ultimi mesi si sono susseguite diverse manifestazioni, pro o contro, dimostrando peraltro come il paese sia aperto alla discussione molto più della maggior parte dei suoi vicini.
Fra i più attivi oppositori alla legge «gay friendly» ci sono i membri dell’«Alleanza dei gruppi religiosi di Taiwan per la protezione della famiglia», nata nel 2013, che raggruppa buddisti, taoisti, cristiani e lamaisti. I cristiani sono una minoranza numericamente ridotta, circa il 5,5% della popolazione di cui due terzi protestanti e un terzo cattolico, ma con una certa influenza.
Le frange conservatrici, religiose e politiche, accusano il rischio per la cultura tradizionale e i valori della famiglia, e contrappongono il colore bianco all’arcobaleno dei movimenti lgbt che nel paese sono attivi fin dall’inizio degli anni Duemila. Il primo Pride si è tenuto nel 2003 e da allora ogni anno accoglie decine di migliaia di manifestanti.
Il paese deve affrontare una materia complessa, che include temi come genitorialità, diritti di successione, assistenza in caso di malattia, ma anche insegnamento nelle scuole. Infuria infatti il dibattito sull’insegnamento gender, con la richiesta da un lato di aggiornare i programmi scolastici e prevedere bagni unisex, e dall’altro il timore che un orientamento di questi tipo possa confondere i più giovani nello sviluppo dell’identità di genere.
Nell’arco di un paio di mesi dovrebbe arrivare il pronunciamento dei 14 giudici della Corte: se dichiareranno l’incostituzionalità dell’articolo, obbligheranno il Parlamento a modificare la legge e si apriranno nuovi scenari. Di sicuro vedremo ancora sfilare cortei bianchi e arcobaleno.