Forse molti ne avranno sentito parlare per la prima volta quando, a seguito dalla prima elezione di Barack Obama (2008), scrisse un’ode per il presidente (la pubblicò in traduzione la rivista Poesia dell’editore Crocetti). Non era un gesto di deferenza, tuttavia, bensì un gesto di riconoscenza: tre giorni dopo l’elezione, infatti, Obama era stato fotografato con una copia dei Collected Poems di Derek Walcott. Fu il poeta a sentirsi inorgoglito e a voler manifestare al presidente la propria solidarietà: entrambi venivano infatti da una genealogia di schiavi. «Il titolo della poesia [“Quaranta acri”, ndr] si riferisce alla “dote” che veniva promessa agli schiavi di colore liberati: 40 acri di terra e un mulo»: così l’introduzione del curatore italiano a un testo poetico che evocava «un campo di cotone punteggiato di neve/ ampio quaranta acri, con i suoi corvi dai prevedibili auspici/ che il giovane aratore ignora per i suoi avi non scordati/ dai capelli di cotone...».
Ora che il 17 marzo Derek Walcott, nativo dell’isola creola di Santa Lucia nei Caraibi, ha lasciato la propria terra luminescente all’età di 87 anni, pensiamo che sia giusto riconoscergli la dignità di un patriarca: arrivato sulla sessantina al Premio Nobel per la letteratura (1992), ha rivendicato in più occasioni e anche nei suoi testi saggistici la propria formazione avvenuta in una famiglia metodista (la madre era preside in una scuola della chiesa). La sua identità era dunque variegata dal punto di vista linguistico (scriveva in inglese ma anche nella parlata creola della sua isola, e la sua poesia portava impresse tracce dei sostrati francese e anche olandese); e dal punto di vista sociale era legata alle umili origini di una popolazione che fu colonizzata e oppressa ma che non si lasciò umiliare – e a questa fierezza contribuì senz’altro la consapevolezza evangelica.
In una preziosa raccolta di saggi (La voce del crepuscolo, Adelphi 2013), da poeta e drammaturgo, muove proprio dalle pennellate di colore e dal paesaggio, naturale e cittadino, per arrivare al carattere della gente caraibica, che rischiò, in quanto sfruttata, di rinunciare all’espressione poetica: «In quanto coloniali abbiamo iniziato con questa sensazione di malarica spossatezza: che nulla si sarebbe mai potuto costruire fra quelle baracche marcite, quei cortili percorsi a piedi nudi, quelle assi scrostate; e che, essendo poveri, avevamo già il teatro delle nostre vite». Quella popolazione viveva allora una lacerazione drammatica: «il conflitto di una razza con il Dio di un’altra». Come conciliare la fede con l’accettazione di un messaggio portato dall’oppressore? Non basta, perché nella sua lucida considerazione delle proprie origini c’è anche autocritica: «Idealizzavamo i poveri; ma l’ultima cosa di cui i poveri avessero bisogno era l’idealizzazione della loro povertà».
Il volto più conosciuto di Walcott è comunque quello del grande poeta, in grado di scrivere un amplissimo poema che rivendica anche le proprie ascendenze letterarie: Omeros (1990, ed. it. Adelphi, 2003). Ma anche qui egli non rinunciò a risalire alla fede e alle reminiscenze bibliche, di chi sia esiliato in casa propria, magari in forma paradossale, di chi sia esiliato in casa propria, magari perché la Bibbia è compagna dell’esiliato: «Imploro Dio di non condividere mai la volontà dell’uomo/ che dilagava davanti a me» (Omeros); «... non servono nomi nuovi per cose vecchie, o nomi vecchi per cose vecchie, ma la fede per usare i nomi vecchi in modo nuovo» (La voce del crepuscolo, con evidente riferimento al testo di Matteo 9). «Il cuore di Bethel e Canaan/ Giace aperto come un salmo...», dice una poesia che comparve in una raccolta rapidamente approntata per il nostro pubblico nelle settimane immediatamente successive al premio (Mappa del nuovo mondo, Adelphi, 1992).
Divulgatore di una cultura semisconosciuta, cantore di un paesaggio pieno di vita («L’alfabeto delle campane,/ La pace di bianchi cavalli,/ I pascoli dei porti,/ La litania delle isole, Il rosario degli arcipelaghi...») Walcott, concludeva il suo «Canto di marinai» con un verso ripetuto tre volte, che ora sarà per lui un commiato: «L’amen di calme acque».