Il mio nome è Duma Kumalo
06 febbraio 2017
In memoria di uno dei Sei di Sharpeville
L'anno scorso, avevo lasciato scivolar via il decimo anniversario della morte di Duma Joshua Kumalo (3 febbraio 2006, CapeTown, durante una conferenza) senza scrivere nemmeno una riga. Troppa sofferenza, troppi rimpianti.
Da pochi mesi, alla fine del 2015, era mancata Theresa Machbane Ramashamole, l'unica donna dei Sei di Sharpeville. Prematuramente anche se non inaspettatamente, pensando alle torture cui venne sottoposta.
Fransis Don Mokhesi, il calciatore, era morto pochi anni dopo essere stato liberato; Oupa Moses Diniso nel 2005, per un incidente stradale.
Ora di quei sei militanti fortunosamente scampati al capestro all'ultimo momento, rimangono in vita soltanto Reid Malebo Mokoena e Reginald Ja Ja Sefatsa (o almeno credo e spero non avendo più contatti) - Un ricordo anche per un altro amico sudafricano scomparso, Benny Nato. Rappresentante dell'African National Congress in Italia negli anni ottanta, venne varie volte a Vicenza per conferenze e dibattiti organizzati dalla Lega per i diritti e la liberazione dei popoli.
Senza togliere nulla agli altri “Sharpeville Six”, con Duma, oltre che con Theresa, si era stabilito un rapporto più stretto, nonostante le migliaia di chilometri che ci separavano. Conservo ancora gelosamente il prezioso libro ricco di foto per me inedite (“Mandela in celebration of a great life” di Charlene Smith) che mi ha inviato con dedica.
Quando era giunta la notizia della sua morte avevo subito pensato: “L'apartheid alla fine ha ucciso anche Duma”. In Sudafrica la segregazione razziale era stata abolita, ma i suoi veleni rimanevano ancora in circolazione e le ferite inferte per decenni continuano a sanguinare.
Qualche anno prima Duma aveva scritto:
“Il mio nome è Duma Kumalo e ho sofferto per quarant'anni. Dopo aver passato sette anni in prigione e tre nella cella della morte, ho ottenuto la grazia dodici ore prima di essere impiccato. Soltanto oggi comprendo come questa esperienza abbia segnato la mia identità e sia alla base delle ferite e dei ricordi frammentari che compongono la mia storia personale”.
Duma aveva letto molto sulle esperienze dei sopravvissuti all'Olocausto, cercando di trovare un senso, una spiegazione per le sofferenze inflitte da un sistema di sfruttamento, oppressione e razzismo istituzionalizzato. Voleva, come Primo Levi, ricordare e testimoniare affinché l'orrore di quanto era accaduto non potesse ripetersi.
Da molti anni lavorava senza sosta per il “Khulumani survivor support group”, un'associazione di aiuto per i sopravvissuti dell'apartheid, per coloro che avevano subito la brutalità del regime, aiutandoli a raccontare le loro esperienze. In particolare il centro “Khulumani” si occupava anche delle persone a cui la “Commissione verità e riconciliazione” non aveva concesso un indennizzo.
Duma era stato imprigionato nel 1984, quando il Sudafrica era in fiamme e le strade dei ghetti ribollivano di manifestazioni e scontri con la polizia e l'esercito. Migliaia di neri vennero arrestati e torturati, centinaia finirono assassinati o “desaparecidos”. Moltissime le condanne a morte per impiccagione.
A Sharpeville (township tristemente nota per il massacro di una settantina di persone inermi da parte della polizia nel 1960), durante una manifestazione contro l'aumento degli affitti, venne ucciso il consigliere comunale Jacob Kuzwavo Dhlamini considerato un collaborazionista. Nello stesso momento Duma stava aiutando un uomo ferito dalla polizia. Arrestato a casa sua, dopo un processo sommario, venne condannato a morte con altri cinque manifestanti. Rimasero inascoltati gli appelli di molte organizzazioni internazionali (Amnesty International, Lega per i diritti e la liberazione dei popoli...) convinte della loro innocenza.
Torturati, nel dicembre 1985 furono trasferiti in un carcere di Pretoria. Nelle celle della morte in attesa dell'esecuzione.
Il 14 marzo 1988 venne annunciato a Duma che la sua esecuzione sarebbe avvenuta dopo cinque giorni. “Questa notizia – raccontava - dopo l'angoscia della cella della morte, sembrava quasi una consolazione”.
A poche ore dall'esecuzione, quando ormai ogni speranza era caduta (erano già stati pesati e misurati per calibrare le forche), l'avvocato entrò in parlatorio annunciando di aver ottenuto la grazia. Rientrando nella cella ritrovò le lettere che aveva inviato, con l'ultimo saluto ai parenti e agli amici. Si rese conto che, se fosse stato impiccato, non sarebbero mai arrivate a destinazione. Un estremo insulto da parte degli aguzzini.
E concludeva: “Sono stato privato del diritto di essere felice il giorno in cui ho compreso cosa fosse l'apartheid. Mi sono messo alla ricerca e da quel momento ho dovuto scavare sempre più profondamente nel passato e provare ancora più amarezza. Quello che ho compreso non riguarda il dolore della morte, ma il dolore della mia vita. Confrontarsi con la morte è difficile, ma confrontarsi con la vita dopo aver visto in faccia la morte è ancora più difficile”.
Era riuscito a farlo con grande dignità, come stanno a dimostrare la sua vita familiare, l'intensa attività culturale, le rappresentazioni teatrali con cui ha dato testimonianza delle ingiustizie subite dal suo popolo.
Quel giorno, il 3 febbraio 2006, l'apartheid fece un'altra vittima. Il suo cuore generoso, infaticabile, segnato dalle sofferenze e dai ricordi, aveva ceduto. Qualche settimana prima, al telefono, si era parlato del materiale (manifesti, fotografie di manifestazioni anti-apartheid nell'Europa degli anni ottanta...) spedito a Sharpeville e inserito nel museo appena inaugurato. Ma il senso di vuoto che lasciava la sua morte non poteva comunque intaccare la consapevolezza che è stato un onore averlo conosciuto.