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E’ di 74 il numero di morti che il mondo del giornalismo paga quest’anno al diritto dovere passione di informare. Lo scorso anno erano 101. Un calo significativo registrato dalla consueta analisi dell’organizzazione “Reporters sans frontières” che lega il dato al fatto che intere nazioni quali Siria, Iraq, Libia, Yemen e Afghanistan, Bangladesh e Burundi siano pressoché irraggiungibili, o comunque gli operatori della comunicazione non siano presenti per l’elevatissimo rischio conclamato, essendo i giornalisti divenuti essi stessi merce di scambio, bottino ambito dai terroristi. Con la conseguenza che questi paesi sono divenuti dei buchi neri, la cui comunicazione è spesso lasciata in mano ai proclami di fanatici terroristi. Altri Stati come il Messico che con 9 giornalisti uccisi si piazza al terzo posto in questa triste classifica, vivono teoricamente sul proprio territorio una libertà di stampa che in realtà è solamente sulla carta, perché l’autocensura di chi scrive scatta con un fine inderogabile: avere salva la vita.

E’ della Siria con 19 vittime il primato del maggior numero di operatori dell’informazione uccisi all’interno dei propri confini, seguito dall’Afghanistan con 10 e appunto dal Messico con 9.

57 erano giornalisti veri e propri, 17 erano collaboratori a vario titolo di siti e blog. 5 fra loro le donne.

Colpisce anche che quasi la totalità delle vittime ha perso la vita nel proprio paese, sono soltanto 4 i giornalisti che sono stati uccisi all’estero: un siriano, Mohammed Zaher al-Shurqat in Turchia, uno statunitense, David Gilkey, in Afghanistan, un olandese, Jeroen Oerlemans, in Libia, e un iraniano, Mohsen Khazai, in Siria.

Sale così a ben 780 gli operatori dell’informazione caduti negli ultimi 10 anni: un’ecatombe spesso silenziosa.

Cresce invece in maniera esponenziale il numero dei giornalisti detenuti in carcere, in ostaggio o peggio scomparsi: 348 persone, 6% in più rispetto al 2015, solo l’1,5% straniero. Qui è la Turchia a fare la parte del leone con oltre 100 arresti compiuti fra reporter e operatori a partire dal post golpe di luglio, ma sono ancora centinaia i giornalisti e blogger che sono sotto processo con le accuse generiche di insulti al presidente Erdogan o di cospirazioni terroristiche. Un giro di vite drammatico quello sui media da parte del governo turco, segno tangibile e sconvolgente del processo involutivo in corso nel paese.

Ben 52 sono i giornalisti nel mondo ad essere ad oggi in ostaggio, tutti concentrati in Medio Oriente ( 21 sono in mano allo Stato islamico), erano 61 lo scorso anno. Sono tutti uomini e gli stranieri sono l’11%.

Il diritto all’informazione è un bene fondamentale, decisivo in questa era dell’immagine e della parola che giungono all’istante in ogni casa, in tempo reale. E spesso ci si dimentica di come dietro un’inquadratura, una intervista, una foto ci sia un essere umano e non una macchina. Spesso un free lance, alla ricerca dell’inquadratura perfetta o dello scoop giornalistico da vendere per un tozzo di pane ai voraci inghiottitori produttori di notizie.

Al seguente link sono scaricabili e leggibili i bilanci nel dettaglio.

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