Il Cinéma du Désert è pronto per una nuova partenza. Lunedì 19 dicembre, infatti, un camion dei pompieri del 1976 di nome Maggie, acquistato in Germania e riadattato per questa avventura come cinema e casa su ruote, lascerà Rovereto per imbarcarsi da Genova alla volta di Tangeri, nel nord del Marocco.
Il progetto del Cinéma du Désert nasce nel 2009 per portare il cinema dei luoghi più remoti del mondo, e come racconta Luca Iotti, presidente di Bambini nel Deserto, «in questi anni ha attraversato Europa, Asia e Africa per portare un sorriso ai bambini e far riflettere gli adulti. Il cinema è uno strumento fantastico e potente per comunicare oltre i confini, sia quelli geografici sia quelli culturali».
«Vanno in luoghi impossibili per portare il cinema alle persone – racconta Marco Baraldi, direttore generale di Motul Italia e membro del consiglio di Motul Corazon, l’associazione no profit che si occupa di beneficienza internazionale all’interno del gruppo Motul e uno dei principali sostenitori del progetto – e per me è straordinario. Avevamo già collaborato con Bambini nel Deserto per Garage Italia e abbiamo pensato che il Cinéma du Désert fosse una chiave di interpretazione formativa unica nel suo genere. L’idea di questo camion che solca i deserti o le zone più impervie della Terra è un’immagine estremamente sfidante, e per noi è stata una miccia che si è accesa immediatamente».
Per Davide Bortot e Francesca Truzzi, compagni d’avventura e ideatori del progetto nel 2009, si tratta di un ritorno in Africa dopo l’edizione del 2014. Nel 2015, invece, era stata la volta della Mongolia e delle steppe siberiane, luoghi remoti e isolati, tagliati fuori dalle cronache internazionali e dalle rotte umane, pienamente intrecciate invece con la storia di Idomeni e degli altri campi profughi disseminati sul territorio greco, visitati durante l’estate dal Cinéma du Désert, perché il deserto non è soltanto quello fisico, ma anche quello mentale di chi ha dovuto lasciare tutto quel che aveva dietro di sé.
Dopo il tema dell’ambiente e dello sfruttamento delle risorse naturali questa edizione sarà dedicata in particolare proprio al tema delle migrazioni.
Portare il cinema in mezzo al deserto non è soltanto intrattenimento, ma può essere l’occasione per scoprire nuovi mondi e nuovi stimoli. «Mi aveva colpito moltissimo – racconta Davide Bortot – la reazione di alcune donne che durante una proiezione erano scappate da davanti allo schermo quando hanno visto l’immagine di un camion che passa sopra alla videocamera. È stato un po’ come il treno delle prime proiezioni, e questo fa capire anche il rapporto di queste popolazioni con l’immagine, che sembra provenire da un altro mondo».
Quali saranno le vostre tappe, una volta arrivati a Tangeri?
«Questa quarta spedizione africana del Cinéma du Désert ha come destinazione Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Prima di tutto percorreremo la catena montuosa dell’Anti-Atlas, successivamente entreremo nel deserto del Sahara marocchino, poi attraverseremo il Sahara Occidentale, la Repubblica islamica della Mauritania e il Mali da nord a sud. Infine entreremo in Burkina Faso dal confine vicino alla città di Bobo-Dioulasso, nella zona tropicale del Paese.»
Il vostro camion, Maggie, non è soltanto un mezzo di trasporto. Quando arrivate nei villaggi si trasforma.
«Esatto. “Maggie” è dotata di un impianto fotovoltaico che garantisce tra le 6 e le 8 ore di proiezione, cioè due film più qualche cartone animato. Sul camion, insieme allo schermo, all’impianto fotovoltaico e all’impianto audio viaggia anche uno scivolo gonfiabile che mettiamo a disposizione del villaggio che ci ospita e delle persone che vengono ad assistere al nostro evento prima delle proiezioni, come momento di socializzazione, come primo momento di reciproca conoscenza e di scambio».
Il vostro viaggio durerà 6 mesi. Cosa portate con voi?
«Prima di tutto tanti film, che ho scelto in base al tema che verrà trattato. Oltre ai film metto tanta voglia di adattarmi e tanta voglia di conoscere, che è il motivo fondamentale che mi porta a viaggiare. Lascio a casa, invece, tutto quello che fa parte della vita ordinaria, come la scheda Sim italiana, il mio indirizzo email e tutto quello che ti tiene collegato al mondo in questa maniera virtuale e mi tuffo nella vita reale. Insomma il mio bagaglio è molto leggero».
Qual è lo scopo del Cinéma du Désert?
«Prima di tutto ha un’utilità sociale, quella di offrire uno spazio libero di aggregazione dove non ne esistono. È uno spazio strano e diverso dal normale, nel senso che all’interno di questo spazio quando ci siamo noi non esistono più le gerarchie della città o del villaggio e il nostro modo di operare è lasciare tutti più liberi possibile. Anche grazie a questo comportamento nascono spesso dei grandi dibattiti all’interno delle comunità. Noi non insegniamo niente e non abbiamo nemmeno inventato niente, perché siamo semplicemente tornati alle origini della storia del cinema, quando il cinema era un baraccone ambulante. Grazie a questo spazio sono nati molti confronti, le persone hanno fatto i propri ragionamenti su temi che ci stanno molto a cuore, specialmente quelle ambientali».
Quest’anno il tema saranno le migrazioni. Come verrà affrontato?
«Quest’anno oltre ai film il Cinéma du Désert sarà un laboratorio, perché porteremo in Africa il messaggio dei burkinabé e dei maliani che abbiamo incontrato qua in Italia, senza filtro e nella loro lingua o nel loro dialetto, e lo porteremo nelle zone da cui loro provengono. Sono migranti che abbiamo intervistato e che hanno lasciato dei messaggi che noi porteremo là, alle persone. Cercheremo di intervistare le persone sia prima che dopo la visione di questo documento in modo da capire quali sono gli effetti di questi messaggi e per vedere se in effetti abbiano un’utilità o meno. Fino a oggi siamo molto contenti del feedback che ci siamo lasciati dietro, ed è anche grazie a questa traccia che torneremo in Burkina Faso, perché la gente ha parlato di noi ed era interessata a conoscerci. Questo ci ha permesso di tornare in quello splendido e accogliente Paese»
Quest’anno il Cinéma du Désert collabora con il progetto CinemArena dell’Aics, l’Agenzia Italiana Cooperazione allo Sviluppo, agenzia del ministero degli Esteri. Come mai hanno scelto proprio voi?
«Credo che questa collaborazione nasca da una serie di coincidenze fortuite, perché per il primo anno hanno deciso di portare la loro attenzione su un Paese, il Burkina Faso, in cui noi avevamo già operato per tre anni, quindi un territorio che noi conosciamo bene. l’Aics ha fatto delle ricerche sul territorio, ha cercato di capire come muoversi e cosa fare ed è incappato nel nostro progetto. Era nostra intenzione tornare in Africa quest’inverno e quindi abbiamo pensato che la cosa migliore fosse collaborare, invece di essere due progetti italiani che fanno la stessa cosa. Abbiamo unito le energie per creare questo esperimento».
Al di là dell’opportunità che cosa porta questa collaborazione?
«Da parte nostra possiamo mettere tutta la nostra esperienza sul campo, perché noi ci siamo mossi in questo paese a fare questo progetto per un totale di sei mesi fino a oggi e possiamo mettere a disposizione tutto questo know how acquisito sul campo. Da parte del ministero sarà interessante scoprire la loro modalità di lavorare: il nostro arrivo non sarà più una sorpresa com’era prima ma nella maggior parte dei casi sarà già stato annunciato, e la nostra carovana si arricchirà di altri protagonisti: attori teatrali, musicisti e persone locali che ci aiuteranno a interagire con la comunità locale e aiuteranno ancora di più a far arrivare il vero messaggio. Da un certo punto di vista noi saremo dei semplici tecnici, perché i protagonisti saranno i nostri partner burkinabé. Anche questa è una sfida interessante per noi».
L’avventura del Cinema du Desert è cominciata nel 2009, quando lei aveva soltanto 24 anni. Perché ha deciso di lanciarsi in un’avventura apparentemente impossibile?
«Forse proprio perché è una grande sfida. Mi ci sono buttato del tutto, nel senso che sono partito con il camion senza avere neanche la patente, me lo sono semplicemente costruito e poi ho deciso che volevo andare in Mali con questo camion, quindi ho preso e ci sono andato con la mia compagna. È stata una scelta che ha fatto molto discutere chi ci conosceva, perché ci hanno quasi presi per pazzi: non avevamo nemmeno la patente e non eravamo mai stati in Africa, tutti ci hanno chiesto cosa pensassimo di ottenere».
Infatti: cosa pensavate di ottenere?
«Beh, quello che volevo vedere era osservare coi miei occhi questa povertà, questo sottosviluppo, questo terzo mondo. Volevo toccarlo e viverlo non dalla sicurezza di un albergo ma dal mio camion, vivendoci dentro, con la possibilità di aprire la porta ed essere in strada. Non posso che consigliarla a tutti, anche se si pensa che i soldi non bastino o che il proprio veicolo non ce la faccia: bisogna buttarsi e andare, c’è tanto da imparare se si è aperti a capire l’altro e a incontrarlo davvero».
Non ci sono dei momenti in cui ci si scoraggia per gli imprevisti?
«Sì, ma in realtà la strada non riserva altro che belle sorprese. Tutte le difficoltà sono semplicemente una cosa che ti rafforza di più, anche se magari in quel momento non la pensi proprio così, perché quando perdi le ruote nel deserto la prima cosa che pensi è “ma perché a me? Ma chi me lo fa fare?”. Eppure, appena superi un problema ti rendi conto che hai lasciato lì un’altra paura. Ecco, credo proprio che un nostro grande problema sia la paura, soprattutto per quanto riguarda il diverso, il “nero”. Se ci pensate, quando siamo piccoli sentiamo sempre dire di comportarsi bene perché altrimenti arriva l’uomo nero. Ecco, in Africa si dice invece di fare i bravi perché altrimenti arriva l’uomo bianco. Queste due frasi ci impongono delle domande. Cosa allontana l’uomo? La paura. Cosa fa sì che questo mondo resti un posto difficile e pieno di conflitti? La paura. Per uscire dalla paura ognuno deve trovare la propria strada, e per me è questa. Noi siamo soltanto un minuscolo granello di sabbia che cerca di unirsi agli altri per creare un deserto più bello».