Alexander Van der Bellen, presidente di un paese da riunire
13 dicembre 2016
A colloquio con Michael Chalupka, direttore della Diaconia in Austria
Il 4 dicembre scorso, mentre in Italia si svolgeva il referendum costituzionale, in Austria si sono svolte le elezioni presidenziali. Dopo un’estenuante campagna elettorale durata quasi un anno, due chiamate alle urne, ballottaggi annullati, il nuovo presidente è Alexander Van der Bellen, leader de «I Verdi» che, con l’appoggio del 53,3% degli austriaci, ha sconfitto nel ballottaggio il candidato del nazionalista «Partito della Libertà austriaco», Norbert Hofer. Sull’esito delle elezioni abbiamo rivolto alcune domande al pastore Michael Chalupka, direttore della Diaconia in Austria.
Che cosa rappresenta per l’Austria e per l’Europa la vittoria di Van der Bellen?
«Alexander van der Bellen è il primo presidente verde in Europa, ma la sua elezione non va vista come una rivoluzione. Durante tutta la campagna elettorale, il candidato verde ha detto che avrebbe svolto il ruolo di presidente in modo tradizionale [l’Austria ha un sistema semi-presidenziale, e il presidente ha un ruolo di “rappresentanza”, mentre il compito di governare spetta al cancelliere, ndr], mentre Norbert Hofer ha dichiarato che avrebbe svolto un ruolo attivo, anche interferendo nelle politiche del Governo, qualora non fossero state a lui gradite. Nel più ampio contesto europeo, la sconfitta del leader dell’estrema destra, che in campagna elettorale ha giocato molto sulla retorica anti-profughi e sullo spirito antieuropeo, è un bel segnale, anche se questo non significa certo la fine del populismo né in Austria né in Europa. A mio avviso il futuro dell’Europa non si deciderà nella piccola Austria, quanto piuttosto in Germania, in Francia e in Italia».
La vittoria del nuovo presidente federale è stata salutata positivamente dalla chiesa luterana e dalla comunità ebraica di Vienna. Quest’ultima, in particolare, per la prima volta dalla sua fondazione dopo la Seconda Guerra mondiale, ha pronunciato una esplicita raccomandazione di voto in favore di Van der Bellen. Che ruolo hanno giocato le chiese cristiane durante queste elezioni?
«Tutti e due i candidati erano vicini alla chiesa protestante: Norbert Hofer dieci anni fa ha lasciato la chiesa cattolica ed è diventato protestante, mentre Alexander van der Bellen, pur essendosi allontanato dalla chiesa luterana negli anni ‘70, ha espresso apprezzamento per Michael Bünker, vescovo della Chiesa evangelica luterana della Confessione di Augusta, e per il lavoro della Diaconia in Austria. In campagna elettorale Hofer, che ha accusato Van der Bellen di essere ateo e comunista, su alcuni manifesti elettorali ha chiesto l’aiuto di Dio, e a questo uso improprio del nome di Dio, la chiesa luterana – che non ha dato indicazioni di voto – ha reagito in modo molto chiaro richiamando il secondo comandamento. Sul fronte cattolico, il cardinale Christoph Schönborn ha invitato gli elettori a tener conto non soltanto delle dichiarazioni dei candidati su temi centrali della Chiesa, come la tutela della vita [il riferimento è all’antiabortismo di Hofer, ndr], ma anche di altro, come: l’atteggiamento dei candidati nei confronti dei più deboli nella società, a cui appartengono anche i migranti, la cooperazione in Europa, la responsabilità dell’Austria nella comunità internazionale».
Quali sono le sfide che dovrà affrontare il neo-eletto presidente?
«La sfida più grande per Van der Bellen sarà di riunire un paese spaccato. L’estrema destra di Hofer ha alimentato contrapposizioni: noi contro gli altri, il popolo contro gli stranieri, noi austriaci contro la burocrazia di Bruxelles. Spero che Van der Bellen sia il presidente di tutti, e che sappia avviare un vivace dialogo con la società civile. Il voto ha senz’altro evidenziato una spaccatura tra le città più multiculturali e le provincie più omogenee, tra persone con un grado di istruzione elevato e persone meno acculturate, tra uomini e donne. Ma la ricomposizione di queste divisioni non può essere affidata al solo presidente, si tratta di una sfida per l’intera società austriaca».
Le chiese sono coinvolte da mesi nell’accoglienza ai rifugiati. Che cosa motiva l’impegno diaconale delle chiese?
«Le chiese cristiane, cattoliche e protestanti, la Caritas e la Diaconia stanno lavorando insieme a favore delle migliaia di profughi giunti in Austria dall’inizio dell’anno. La Diaconia austriaca ha 600 impiegati e molti volontari operativi in quattro diversi settori: stiamo gestendo case di accoglienza per profughi e minorenni non accompagnati; offriamo consulenza legale ai richiedenti asilo; siamo attivi nell’integrazione, e abbiamo centri di terapia per traumatizzati. Accanto al lavoro della Diaconia, ogni comunità locale è impegnata nell’organizzazione di corsi di lingua tedesca per stranieri e di percorsi di integrazione. Purtroppo la politica del Governo e quella dei Bundesländer stanno andando spesso in direzione contraria: non solo viene fatto applicare rigidamente “Dublino III”, il regolamento comunitario in tema di asilo politico che stabilisce di rimandare i profughi venuti in Austria nel primo Paese in cui si mette piede; ma sta peggiorando anche l’aiuto sociale a favore dei profughi. A questo proposito le chiese protestanti e la Diaconia stanno facendo lavoro di pressione politica avanzando critiche e proposte per migliorare il sistema d’asilo in Austria e in Europa; in particolare stiamo prendendo a modello il progetto dei corridori umanitari portato avanti dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Purtroppo, il Governo dell’Austria ha finora reagito con un secco “no”, ma non molleremo perché l’aiuto al prossimo e ai profughi è un segno forte della nostra fede».