L'Indonesia e Malesia sono i paesi maggiori per produzione di olio di palma nel mondo: da soli contribuiscono a più dell'80% della produzione globale con 43 milioni di tonnellate prodotte. Secondo le aziende che si sono impegnate per rendere questa produzione sostenibile, l'olio di palma consuma poco terreno, poca acqua, evita l'uso di conservanti e ha altre innumerevoli qualità.
C'è un lato oscuro, però, che Amnesty International ha denunciato in un suo rapporto pochi giorni fa: lo sfruttamento del lavoro, in particolare minorile, nelle piantagioni Indonesiane, prese in esame dall'indagine. In particolare, sotto la lente dell'Ong c'è il più grande coltivatore mondiale di palme da olio, il gigante dell’agro-business Wilmar, che ha sede a Singapore, fornitore di nove aziende mondiali: AFAMSA, ADM, Colgate-Palmolive, Elevance, Kellogg’s, Nestlé, Procter & Gamble, Reckitt Benckiser e Unilever. Ne abbiamo parlato con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.
Quale fotografia riporta l'indagine?
«Una fotografia sconcertante: ci troviamo di fronte, sulla base delle ricerche effettuate a Kalimantan e Sumatra, due luoghi di produzione dell'Indonesia in cui agisce il monopolio di Wilmar, a una situazione di lavoro forzato minorile spaventosa con bambini che rinunciano alla scuola per aiutare i genitori, donne impiegate alla giornata senza nessuna garanzia e discriminate, turni di lavoro usuranti per aumentare di fatto il fatturato di nove grandi marchi che usano l'olio di palma in prodotti di largo consumo, alimentare, cosmetico, casalingo. Nove marchi che abbiamo interrogato chiedendo loro se sono a conoscenza degli abusi che si compiono in Indonesia nelle piantagioni Wilmar da cui si riforniscono e se intendono avvertire i consumatori che i loro prodotti di largo consumo contengono un olio che è tutto meno che sostenibile».
Come hanno risposto alle domande?
«Il rapporto è uscito pochi giorni fa, al momento non ci sono risposte complete alle richiesta su cosa intendano fare. Sette delle nove aziende non hanno smentito che l'olio provenga da quei luoghi, altre due, Procter&Gamble e Unilever, hanno detto ad Amnesty International che usano olio proveniente da quelle piantagioni, ma non sanno esattamente quali; Kellog's e Renchis hanno confermato che alcuni dei prodotti specifici usano esattamente quell'olio: una trasparenza maggiore ma anche un'ammissione. Colgate e Nestlé hanno detto che nessuno dei loro prodotti contenuti nel rapporto contiene quell'olio di palma, ma lo contengono altri, non ci hanno detto quali. La trasparenza è carente e a questa si aggiunge l'autocertificazione che va avanti dal 2004 con un tavolo sull'olio di palma sostenibile che certifica la bontà del prodotto ma senza che ci sia un organo di controllo. Nessuno controlla il controllore».
Wilmar è uno dei produttori maggiori, non appellarsi a lui per queste grandi multinazionali potrebbe essere difficile: è realmente possibile cambiare questa catena?
«Che sia possibile cambiare è indubbio, bisogna capire dove è più facile che succeda, se dalla testa o dalla coda. Se il consumatore non ha informazioni sufficienti e se legge sulle tabelle che dicono che l'olio di palma è sostenibile, tende a fidarsi perché non ha modo di accedere a informazioni di senso contrario. Oggi, forse, con il rapporto di Amnesty ne ha una. Wilmar ha detto a Amnesty di essere consapevole che ci sono dei problemi nelle sue piantagioni, ma al momento non ha fatto nulla. Ma ancora prima, la legge sul lavoro in Indonesia è molto severa, la maggior parte dei trattamenti inflitti ai lavoratori da questa azienda sarebbero reati penali. Come mai questa legislazione non viene adottata? Un altro soggetto che manca di assumersi le sue responsabilità. I marchi devono fare la loro parte (nel 2015 hanno fatturato utili per 320 miliardi di dollari), moralmente è inaccettabile che non abbiano fatto nulla contro lo sfruttamento atroce dei lavoratori dell'olio di palma.
Sfruttamento del lavoro minorile, come in altri luoghi, non è il problema solo delle aziende, ma anche di un welfare assente. Che ne pensa?
«Si, il problema chiama in causa l'assenza di welfare di governi che sono corrotti o destinano ingenti somme a spese inutili, come quelle militari, con il risultato che dall'altra parte del mondo troviamo consumatori che senza avere nessuna informazione si ritrovano con prodotti alimentari (come caffè, cacao), magari considerati etici, come le auto elettriche o i cellulari, che sono fatti con il lavoro dei bambini. Tornando all'olio di palma, il governo dell'Indonesia soggiace al predominio di questa multinazionale: dovremmo chiederci quanto è ingannevole l'uso della parola “sostenibile” per noi stessi, convinti con questa parola di aver fatto delle scelte giuste».
Sembra che quest'olio abbia comunque un'impronta ecologica minore rispetto ad altre produzioni. Ammesso e non concesso che sia più sostenibile, qual è il punto di equilibrio tra diritti diversi, come quello alla salute e a un lavoro dignitoso, per esempio?
«Un punto di equilibrio non credo che ci sia per il momento. Se non ci fossero mai stati casi di sfruttamento del lavoro per l'olio di palma, ci sarebbe comunque un problema enorme legato agli incendi di questi luoghi, o l'uso di sostanze chimiche estremamente tossiche, con un impatto ambientale comunque alto. Dovrebbero dircelo i produttori se c'è una sostenibilità, fa parte delle richieste che abbiamo posto nel rapporto. Se mancano anche le risposte meno impegnative, come dire se nel dentifricio c'è l'olio di palma dell'Indonesia oppure no, credo che la risposta alla domanda principale si allontani sempre più. Tra sei mesi dovremmo tornare sull'argomento, sicuramente».