Aung San Suu Kyi. Una donna e la sua «sfida titanica»
25 novembre 2016
Ad un anno dalle storiche elezioni in Birmania esce il libro «Le sfide di Aung San Suu Kyi per la nuova Birmania». Ne abbiamo parlato con l’autrice, Cecilia Brighi
Sarà presentato domani a Roma, martedì 29 novembre, il libro «Le sfide di Aung San Suu Kyi per la nuova Birmania» di Cecilia Brighi, presso la Casa delle Letterature in Piazza Dell’Orologio, 3 alle 17,30.
«Il libro vuol far conoscere qual è l’attuale situazione in Birmania grazie al difficile lavoro di Aung San Suu Kyi, ad un anno dalle storiche elezioni che, nel novembre 2015, l’hanno “eletta alla guida del paese”», racconta Cecilia Brighi a Riforma.it, che prosegue: «un quadro storico del paese, con i processi di cambiamento avvenuti, in particolare, dal 2011 ad oggi, senza dimenticare la storia della lunga e violenta dittatura militare, che dal 1962 sino al 2011 ha creato una profonda un’autarchia. Ciò spiega anche il perché, tutti coloro che sono nati dal ’62 in poi in Birmania non hanno mai avuto consapevolezza di cosa fosse la democrazia, proprio perché nati e vissuti in un clima di repressione, terrore, paura e corruzione.
Infatti, tutte le decisioni prese nel corso di quegli anni si basavano su relazioni di comodo e corruttele, con un ruolo militare predominante e diffuso soprattutto nelle zone etniche e dove i militari potevano decidere su ogni cosa. Pressioni su villaggi e popolazioni locali erano esercitate come linfa vitale per le stesse strutture gerarchiche e armate: attraverso la razzia di raccolti e il dominio di cose e persone. Questo tipo di eredità, dal 2011 e dopo le elezioni del 2015, oggi sta lentamente cambiando, malgrado la presenza militare sia ancora molto influente. San Suu Kyi, con tutte le sue forze, sta tentando di cambiare queste terribili eredità del passato».
Cosa limita l’azione di San Suu Kyi, malgrado le elezioni del 2015 l’abbiano consacrata alla "guida del paese"?
«Proprio quel “macigno” rappresentato dal ruolo dei militari. Nel 2008, per fare un esempio – a pochi giorni dal ciclone Nargis, abbattutosi in Birmania il 2 maggio di quell’anno che creò danni enormi – , la giunta militare decise di non bloccare la votazione referendaria sulla Costituzione, malgrado la Francia avesse chiesto alle Nazioni Unite di attuare la legge del diritto d’intervento come previsto nei casi d’emergenza. Dunque con le quasi 200.000 vittime, i dispersi e i feriti, e l’assurda decisione di non voler ricevere aiuti internazionali, e nella più totale devastazione, si votò; a eccezione delle regioni più colpite dal ciclone: Rangoon, la principale città del Paese ed ex capitale, e nel delta dell'Irrawaddy. Il capo della giunta militare Tin Aung Myint Oo sosteneva che bisognasse “restaurare pace e stabilità e istituire una democrazia multipartitica” in Birmania, seppur nessun passo venisse fatto nei confronti di San Suu Kyi, già alla guida dell’opposizione, nella Lega nazionale per la democrazia».
Dunque, cosa emerse dall’esito referendario?
«Che la Costituzione, con un governo birmano prevalentemente democratico, sancisce ancora che il 25% della rappresentanza parlamentare sia nelle mani dei militari, che già detengono le poltrone più importanti dei ministeri: Difesa e Interni, con il controllo della polizia, dei servizi di sicurezza e del Ministero degli Affari di Confine. Dunque, con un peso importante su molte decisioni dirimenti per la gestione del territorio e sugli Stati etnici. Con questo “macigno” nel 2015, Aung San Suu Kyi ha vinto le elezioni, con l’80% delle preferenze».
Quali sono le sfide che San Suu Kyi deve affrontare?
«In questo processo di cambiamento democratico, San Suu Kyi deve confrontarsi quotidianamente con le limitazioni imposte dal potere militare. Deve ripartire da una atavica assenza di cultura democratica nel paese e favorirne però lo sviluppo e il radicamento; e arginare il ruolo dei militari. Passare da una situazione che vede il paese governato dalle leggi, ad uno vero e proprio Sato di diritto. Il Parlamento, malgrado tutto, è riuscito quest’anno ad approvare anche leggi importanti sul piano delle libertà democratiche».
Uno scoglio, motivo di disagio, rimane la situazione della popolazione Rohingya, il gruppo etnico di fede musulmana che, pur vivendo da quasi un secolo nello Stato birmano di Rakhine, al confine con il Bangladesh, oggi non è riconosciuto come una delle 135 etnie ufficiali della Birmania e subisce quotidiani soprusi e gravi violenze. Cosa dice, e come si muove, San Suu Kyi in questa difficile situazione?
«Nelle sue possibilità, ha immediatamente creato una Commissione d’inchiesta, ad hoc, presieduta da Kofi Annan che sta intervenendo per cercare di impedire i soprusi e tutelare la minoranza dei Rohingya. Una situazione molto complicata; nel corso di questi ultimi anni un’organizzazione di destra e nazionalista di monaci buddhisti, che si chiama Ma Ba Tha ha, ha fomentato un clima di odio e di contrapposizione nei confronti dei musulmani, considerati da questi monaci oltranzisti, degli usurpatori della religione nazionale buddhista. Dunque, sono state fatte approvare quattro leggi liberticide per la libertà religiosa, espressamente volute per la preservazione della religione buddhista. Atti che il governo e il parlamento precedente, avevano approvato senza riserve. In questi ultimi tempi, infatti, sono stati bruciati interi villaggi e provocata la morte di migliaia di persone; una persecuzione che va ben oltre la popolazione Rohingya, ma bensì verso tutte le persone di religione musulmana in Birmania, dal Nord al Sud del paese sono state incendiate moschee e attività commerciali di musulmani. In quest’ultimo mese, poi, vi è stato un incremento di recrudescenze proprio nello Stato Rakhine. Data la preoccupante situazione le Nazioni Unite sono intervenute a difesa della popolazione. L’Alto commissario per i diritti umani in Birmania, Louise Arbour, donna, e proprio perché tale recentemente insultata dal capo di questi monaci come donna “di facili costumi”, per usare una brutta espressione utilizzata nel passato, è intervenuta duramente per interrompere questa spirale di violenza. Una dura condanna è giunta dalle Nazioni Unite per crimini contro l’umanità, torture, stupri, esecuzioni sommarie. Oltre 100 mila Rohingya sono costretti a vivere in campi profughi senza alcuna possibilità di movimento, lavoro, e in condizioni davvero precarie. L’Unhcr ha chiesto al governo del Bangladesh di lasciare aperte le frontiere per permettere a questa minoranza di potersi rifugiare in territorio sicuro. Ma neanche il governo bengalese vuole ospitarli».
Una situazione terribile. Dunque, che può fare San Suu Kyi?
«Si tratta di Una vera spina nel fianco. Lei, ha posto come primo obiettivo del suo governo la pacificazione del Paese, invece, in questi ultimi mesi, si stanno accendendo nuovi scontri etnici tra l’esercito nazionale e gli eserciti etnici, soprattutto al Nord della Birmania, nello Sato Kachin e nello Stato Shan; tanto è vero che il Governo cinese di Pechino ha già accolto oltre trentamila persone fuggite dalle persecuzioni e dagli scontri. Tutto questo mentre San Suu Kyi sta cercando di far firmare un accordo di pace tra tutte le etnie, un accordo nazionale. Anche perché una gran parte di persone nel paese promuove dialoghi di pace; e così fanno la maggioranza dei monaci buddhisti (distanti dall’associazione fondamentalista minoritaria) attraverso una regolare promozione di incontri di dialogo interreligioso, di condivisione e di pace».
Cosa impedisce di poter arrivare alla firma e ad una modifica dell’attuale Costituzione?
«Credo che ci sia dietro un disegno ben preciso "mosso" dai militari, spaventati soprattutto da una possibile riforma della Costituzione; che, tra l'altro, può essere approvata solo attraverso il loro consenso. Un passo che potrà essere fatto solamente quando, dicono i militari, nel Paese si giungerà ad una reale stabilizzazione di pace tra tutte le parti. Siccome in questo periodo si registrano alti livelli d’emergenza, la situazione è congeniale ai militari, che non devono esprimersi su una riforma dell'attuale Costituzione: garanzia per il loro controllo geopolitico. Teniamo presente che la Birmania è anche la seconda produttrice al mondo di papavero da Oppio e di meta anfetamine».
Nel libro «Le sfide di Aung San Suu Kyi per la nuova Birmania» c’è la storia di una donna coraggiosa. E così?
«Se fosse stata un uomo, non avrebbe mai ricevuto tante critiche, e forse sarebbe stata sostenuta nelle sue battaglie; di questo ne sono certa. In molti, invece, le consigliavano di fuggire dal Paese, di abbandonare una battaglia già persa in partenza. Lei ha sacrificato la propria vita per un grande obiettivo, quello cambiare il suo paese e la condizione di vita di molte donne, uomini e bambini. Una donna che ha conosciuto la sofferenza, l’umiliazione, la violenza e che, malgrado tutto, porta avanti una sfida titanica. A pochi giorni dalla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne è importante parlare di una grande donna e del suo grande esempio. Una donna che ha saputo conquistare spazio anche nei tavoli negoziali internazionali per la pace, dove spesso le donne non hanno né posto né rappresentanza».