La campagna elettorale di Donald Trump, fresco vincitore delle presidenziali statunitensi, è stata segnata dall’ossessione nei confronti della Cina, chiamata in causa negli ambiti più disparati, dal mercato commerciale a quello valutario, fino ad accusare Pechino di essersi inventata il concetto di cambiamento climatico per danneggiare la competitività delle industrie statunitensi. Ci si sarebbe aspettati che simili prese di posizione incontrassero l’aperta ostilità da parte dell’opinione pubblica cinese, eppure non sembra essere così.
«Nel momento in cui Donald Trump superava la soglia dei 270 grandi elettori, necessari per diventare presidente degli Stati Uniti – racconta il direttore dell’agenzia stampa indipendente China Files, Gabriele Battaglia – , la home page del sito dell’agenzia stampa ufficiale Xinhua parlava dell’incontro a Mosca tra il premier cinese Li Keqiang e Vladimir Putin, e metteva solo in secondo piano la notizia dell’elezione negli Stati Uniti». Comincia in questo modo il racconto di questa prima settimana trascorsa dopo l’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti, un risultato che ha occupato tutti i giornali occidentali per giorni ma che non ha scaldato i cuori della seconda economia del mondo, la Cina.
«È stata una visione significativa – prosegue – perché in sostanza il messaggio lanciato da Pechino è quello di sottolineare come ci siano anche altri interessi e altri amici e che non ci sia bisogno di pendere dalle labbra degli statunitensi».
In questi primi sette giorni è anche arrivata, ultima tra le conversazioni con i grandi capi di Stato mondiali, la telefonata con il presidente cinese Xi Jinping, nella quale si è ribadito che «la cooperazione è l’unica scelta possibile per Cina e Stati Uniti».
A Pechino si chiedono se l'imprenditore sarà altrettanto risoluto nel mettere in pratica quanto affermato in campagna elettorale: ovvero tariffe del 45% sul Made in China e pugno di ferro contro le manipolazioni valutarie di cui Pechino è accusata.
Come mai la Cina ha reagito in modo così pacato all’elezione di Trump?
«Le reazioni cinesi sono quasi sempre molto ben ponderate e i leader non si sbilanciano mai. Il motivo è molto semplice: è un assunto della politica estera cinese, a differenza di quella americana, il non intromettersi nelle vicende interne altrui».
Al di là delle formalità, che cosa si è detto davvero in questa telefonata?
«Innanzitutto c’è una questione curiosa: i media cinesi ne hanno parlato subito lunedì, quando la telefonata è avvenuta, mentre da Trump non è arrivata alcuna conferma di questa telefonata.
Insomma, pare che Xi Jinping abbia parlato della necessità di continuare le relazioni sino-americane nel nome della stabilità, e dall’altra parte pare che Trump abbia detto delle parole che sono musica per le orecchie dei cinesi, perché ha parlato di una situazione win-win, nella quale ognuno vince. Questa è veramente una parola d’ordine cinese, perché nei loro rapporti con il resto del mondo i cinesi cercano sempre di instaurarla».
È qualcosa di diverso rispetto al passato?
«Decisamente. È molto diverso sia da ciò che era stato finora con l’amministrazione Obama, sia da quello che sarebbe stato con Clinton presidente, che dell’amministrazione Obama è stata Segretario di Stato, e cioè l’idea del pivot to Asia, la formula di Obama nei confronti della Cina, che segna lo spostamento degli interessi statunitensi dall’area mediterranea e sudamericana verso l’Asia, considerato il continente del futuro. In questa strategia i cinesi vedevano un tentativo di contenimento dei propri interessi, era la grande paranoia della Cina nei confronti di questo spostamento di interessi. Se Trump ha veramente evitato di parlare di pivot to Asia ma ha soltanto parlato di situazione win-win, allora è veramente musica per le orecchie cinesi».
Quindi per la Cina era comunque preferibile la vittoria di Trump?
«Diciamo che la Cina sta alla finestra per cercare di capire chi sia questo Trump. Hillary Clinton è conosciuta, è considerata un “falco” in politica estera, perché la Cina ci aveva già avuto a che fare e piuttosto che avere l’ignoto davanti preferisce il nemico prevedibile. Nei giorni precedenti alle elezioni americane si diceva che i medi e gli alti funzionari cinesi avrebbero preferito Clinton, così da sapere almeno “di che morte morire”, mentre Trump è veramente l’ignoto, e la Cina sta cercando di prenderne le misure. La preoccupazione comunque è parziale: un editoriale del Global Times, che è, diciamo, la versione pop del Quotidiano del popolo, immediatamente dopo le elezioni affermava che la Cina fosse ormai abbastanza grande e matura da determinare da sola la propria politica estera, senza la necessità di aspettare gli alti e bassi caratteriali di un personaggio del genere».
Tra le principali promesse di Donald Trump in campagna elettorale va ricordata quella di tassare al 45% le merci di provenienza cinese, in modo da scoraggiarne l’importazione negli Stati Uniti. Questo non preoccupa Pechino?
«Insomma. La Cina è un po’ combattuta tra i segnali incoraggianti di politica estera degli Stati Uniti e questi problemi di politica interna e di politica commerciale. Il famoso 45% di tariffa sulle merci cinesi darebbe il via inevitabilmente a una guerra commerciale, però ho letto poco fa un articolo del South China Morning Post, che è un quotidiano di Hong Kong, che diceva in sostanza che Trump è quello che promette di imporre il 45% di dazi sulle merci cinesi, ma allo stesso tempo annuncia mille miliardi di investimenti nei prossimi anni per le infrastrutture. L’ovvia domanda è: chi mette questi mille miliardi? I cinesi guardano quindi con molto interesse alla possibilità di investire in infrastrutture negli Stati Uniti, e Trump parla di ponti, strade, ferrovie, cioè un modello di sviluppo tipicamente cinese. In queste settimane ho fatto diversi viaggi attraverso la Cina, e ho visto ancora una volta che è un enorme cantiere: Pechino sta attuando una grande politica di infrastrutture perché pensa che traini lo sviluppo e inoltre permette di impiegare la propria sovraproduzione di cemento, acciaio e altri semilavorati. È un modello che sta cercando di esportare nella vicina Asia fino all’Europa lungo tutto l’asse di Eurasia con la famosa formula della “nuova via della seta”. Ecco, se adesso anche gli americani sono disposti a prendersi in casa investimenti cinesi sulle infrastrutture, allora la Cina può essere solamente contenta».