Il conflitto in corso nello Yemen ha causato, secondo stime delle Nazioni Unite, oltre 6.900 morti e 35.000 feriti, oltre ad almeno tre milioni di sfollati. Dalla mezzanotte tra oggi e domani entrerà in vigore un “cessate il fuoco” di 72 ore che potrà essere prorogato. Il mediatore delle Nazioni Unite per lo Yemen, Ismail Uld Cheikh Ahmed, ha affermato che «la decisione è stata presa da tutte le parti coinvolte nella guerra civile con l'intento di mettere fine al conflitto» che ha causato «una pesantissima crisi umanitaria». Sia i ribelli Houthi, una milizia fedele all’ex presidente Saleh, deposto nel 2011 dopo le rivolte popolari, sia l’attuale governo, guidato dal presidente Mansur Hadi e appoggiato dalla coalizione araba a guida saudita, hanno accettato la tregua, considerata una risposta alle richeste della popolazione yemenita.
Questo “cessate il fuoco” rappresenta un nuovo tentativo di mettere in atto quello che si era cercato di realizzare con la cessazione delle ostilità dello scorso 10 aprile e che non era stato rispettato da nessuna delle parti. Inoltre, nel breve termine, dovrebbe permettere la consegna degli aiuti umanitari.
La pausa nelle ostilità è è stata raggiunta in un momento molto difficile del conflitto, perché gli ultimi giorni avevano visto un rapido inasprimento ed ampliamento del conflitto: le batterie missilistiche dei ribelli Houthi, che controllano in parte il nord del Paese, avevano aperto il fuoco contro un cacciatorpediniere americano, senza colpirlo, e a distanza di poche ore gli Stati Uniti avevano risposto colpendo i radar della postazione Houthi da cui era partito l’attacco. La reazione ne aveva scatenata un’altra, questa volta da parte dell’Iran, che aveva inviato nell’area due navi da guerra. Il punto più tragico del conflitto è però arrivato lo scorso 9 ottobre, quando un attacco aereo della coalizione a guida saudita aveva causato la morte di almeno 155 persone colpendo una sala dove era in corso un funerale del padre di un esponente di spicco dei ribelli Houthi. Secondo Eleonora Ardemagni, collaboratrice dell’Ispi, Istituto di Studi Politici Internazionali, e della Nato Defense College Foundation, «si scoprirà l’efficacia di questo accordo solo quando scatterà l’ora del “cessate il fuoco”».
L’accordo è reale?
«Diciamo che è stato realmente negoziato a livello politico dai vertici delle varie fazioni in lotta, ma non sappiamo se verrà tradotto sul campo dalle tante milizie che popolano oggi lo Yemen e che sono spesso fuori controllo rispetto ai loro referenti politici».
Quali sono le possibili conseguenze?
«Se le cose andassero per il verso giusto, questa tregua aprirebbe la quarta fase negoziale. Ci sono già stati tre round di colloqui, l’ultimo fallito ad agosto in Kuwait, e nessuno di questi è riuscito a portare a un cessate il fuoco duraturo. Penso che in questo momento questa tregua venga apprezzata sia dalla coalizione a guida saudita che dai ribelli sul campo, perché dopo il bombardamento della scorsa settimana da parte della coalizione militare saudita contro una cerimonia funebre a Sana’a, in cui si trovavano molti capi politici Houthi, la pressione della comunità internazionale sulle parti in conflitto e in particolare sull’Arabia Saudita che bombarda i ribelli sciiti dello Yemen dal marzo del 2015 era davvero diventata forte, ed era ormai imbarazzante per Riyadh continuare a giustificare agli occhi dei suoi alleati occidentali un conflitto che sta diventando sempre più cruento e che fa tantissime vittime civili».
Quali sono gli strumenti che la comunità internazionale può mettere in campo?
«Si deve ripartire dalla risoluzione Onu 2216, con la quale si chiedeva e si chiede ancora il ritiro dei ribelli Houthi dalle aree occupate e la restituzione da parte dei ribelli delle armi sottratte all’esercito. Questa risoluzione parla a tutti gli interlocutori, cioè sia il governo yemenita riconosciuto a livello internazionale, oggi spostatosi ad Aden, sia i ribelli Houthi del nord, seguaci dell’ex presidente Saleh, che invece hanno un loro governo parallelo istituito da poche settimane a Sana’a».
Lei parlava di armi sottratte all’esercito. Quando e come è successo?
«Dobbiamo tornare all’avanzata militare avvenuta tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 e che ha portato gli Houthi a occupare vaste aree dello Yemen che sono sfuggite al controllo del governo riconosciuto. Ecco, molte delle armi di cui oggi dispongono i miliziani del nord appartenevano all’esercito yemenita, perché una parte dell’esercito, quello che segue ancora l’ex presidente Saleh, si è staccato e si è unito alla rivolta».
Tutti gli strumenti diplomatici finora sono falliti. Adesso cosa potrebbe cambiare?
«Diciamo che c’è una nuova consapevolezza: nessuna delle due parti in conflitto riesce a prevalere militarmente sul campo, l’abbiamo visto in questo anno e mezzo di guerra, e questo è un formidabile stimolo in questo momento per tornare a parlarsi».
Poniamo che lo Yemen possa arrivare a uno stop permanente delle ostilità. A quel punto quali scenari si aprono? Può rimanere un unico Paese o bisogna considerare l’opzione di una suddivisione?
«Sarà estremamente difficile che lo Yemen rimanga un Paese unitario, nel senso che guardando ai rapporti di forza sul campo dopo questo anno e mezzo di conflitto vediamo che è tornato di fatto a dividersi in due parti, com’era prima del 1990: abbiamo lo Yemen del nord, che è controllato militarmente dagli Houthi, che sono originari delle terre del nord e dall’oligarchia dell’ex presidente Saleh, e lo Yemen del sud in parte sotto il controllo del governo riconosciuto, in altre aree, soprattutto quelle orientali, guidate da tribù autonome e con la presenza oltretutto di milizie jihadiste, soprattutto al-Qaeda nella Penisola Araba, soprattutto in città costiere. Durante il processo di transizione successivo alla rivolta del 2011, che aveva portato alle dimissioni di Saleh, si era negoziata una soluzione federale per lo Yemen, uno stato diviso in 6 macroregioni. Ovviamente non è entrata in vigore a causa del conflitto».
Ma l’Arabia Saudita potrebbe accettare una federazione in cui gli Houthi, o comunque gruppi sciiti vicini all’Iran, facciano parte della leadership politica?
«No. Sarà impossibile, perché le terre in cui gli Houthi si autogovernano e si sono espanse sono proprio quelle lungo il confine settentrionale, il confine tra lo Yemen e l’Arabia Saudita, ed è da lì che i miliziani Houthi portano i loro attacchi, anche con missili e con guerriglia lungo il confine. In realtà sarà essenziale vedere lo status della capitale Sana’a: credo che per i sauditi non sia negoziabile e accettabile avere un’altra capitale mediorientale dopo Beirut, Baghdad e Damasco, ancora sotto il controllo della fazione sciita, come al momento».