L’arte nasce sempre da un dialogo: con la natura nelle sue tante espressioni: paesaggio, mare, foresta, città in tutti i suoi anfratti; persone a cui fare un ritratto; folla; momenti della vita; angoli dell’ambiente vissuto, a cui si associa, talvolta, l’attenzione all’evolversi del soggetto nel tempo e nello spazio, in una ricerca formale e concettuale che può avere limiti assai ristretti oppure grande varietà connessa al senso più profondo del dialogo.
Il percorso di Per Kirkeby (1938), danese contemporaneo, evidenzia una appassionata volontà di provare tutto quanto le esperienze dell’arte come «rappresentazione» – nel senso crociano della parola – del suo sentire di fronte alla natura come alle persone, alla loro vita, ai loro drammi, alle loro vicende, viste con il distacco dell’artista ma anche con il syn-pateo (sentire) della sua profonda umanità alla ricerca di una sempre maggiore profondità, che viene realizzata anche attraverso una sofferta forma di astrazione a strati sovrapposti di colore che paiono quasi essere la trasposizione nella pittura e nella scultura di quanto espresso nella cinematografia, nella poesia, negli allestimenti teatrali e dei balletti, tutte forme di espressione da lui praticate associando la sua formazione scientifica di geologo ricercatore al quella artistica.
Lo studio universitario della geologia dà all’artista la struttura logica con cui affrontare l’osservazione della natura senza perdersi totalmente in lei, riuscendo a rappresentare con immediatezza ma anche razionalmente i panorami nordici che lo studio delle immense zone ghiacciate gli mette di fronte provocando ingenuo stupore di fronte alla grandiosità del creato colto nella sua forma più pura e semplice pur nella sua complessità; di qui gli acquerelli dai toni delicati e sommessi in cui azzurri, grigi, viola, macchie di marrone per le terre rocciose si distendono in sequenza di partecipazione– tanto sentita da apparire talvolta quasi violenta – a un creato puro, incontaminato anche dal pensiero, che vi entra sommesso per il tramite di un pennello delicato, rispettoso, stupito e commosso, che fa emergere i colori viola, verde e marrone per le rocce, i rari praticelli, gli scogli strapiombanti, presentando nell’insieme una natura in cui l’uomo entra con timore e tremore, per essene poi fagocitato, coinvolto nel fascino del rappresentare, che riporta ai primordi, al senso più primitivo del bello.
Un senso all’apparenza primitivo del bello si ritrova anche nella sequenza di statue Braccio e testa, dove la capacità di sintesi raggiunge il suo apice, creando un piccolo mondo fatto di minuscole rientranze o sporgenze, che, nel loro insieme, esprimono l’incredibile essenza dell’essere umano, capace di pensare, meditare, riflettere e realizzare mediante l’associazione di ciò che elabora il cervello e quanto il braccio realizza: una mirabile rappresentazione non tanto di Arm und Kopf (braccio e testa) quanto di Essere umano con tutte le capacità che dal primitivo Neanderthal hanno fatto uscire l’uomo moderno. Una splendida sintesi di questo lungo processo, che trova grandiosa forma espressiva intermedia nella grande scultura (370x230x80 cm) Herakles in cui la forza bruta dell’uomo sembra emergere dalla creta primigenia, per entrare nel mondo e far nascere la storia.
Le grandi tele che formano la parte più cospicua della mostra rappresentano, ciascuna in modo particolare, un sovrapporsi di esperienze, di tempi diversi, di ambienti diversi, di persone diverse, ciascuna delle quali ha un elemento unificante che si diluisce nei mille rivoli del reale osservato, interpretato, collocato nel proprio percorso di vita con le sue gioie, i suoi tormenti, le sue percezioni, le sue conoscenze interpretati con una ampiezza e una varietà di significati da andare ben oltre i limiti delle singole poesie in cui Kirkeby si è cimentato nella sua ricerca, per diventare veri e propri poemi di fronte ai quali soffermarsi a lungo per intuirne la chiave di lettura.
Vi sono tele di ampie dimensioni, ma più contenute sono quelle caratterizzate dai numerosi segmenti evocanti spesso un sentore di tormenti o addirittura di tragedia; come il quadro intitolato Absalon; riferito alla storia biblica di un figlio del re Davide che, ribellatosi al padre e sconfitto, fugge fra le piante di una macchia boschiva, impigliando i lunghi capelli fra i rami di un frondoso cespuglio, viene catturato e ucciso. Fra una temperie di segni tesi a rappresentare non solo i rami del cespuglio ma il suo tormento di figlio ribelle costretto a fuggire, si viene disegnando una tempesta di sentimenti che proiettano fuori dalla tela in modo quasi materiale il senso della tragedia, della rottura di un rapporto filiale ma anche di un rapporto con Dio.
(Mendrisio – Svizzera – Museo d’arte, fino al 29-01-2017)