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La nebbia di New York

Ancora confuse le ricerche della verità dopo l'attentato a Manhattan. L'intervista a Luca Pilone, che si trova in città

Il 17 settembre è esploso un ordigno rudimentale nel quartiere Chelsea, a Manhattan, nel cuore di New York, e un altro è stato trovato inesploso. In queste ore sono stati trovati altri cinque esplosivi in una stazione ferroviaria del New Jersey. Le bombe ricordano quella artigianale usata per l’attentato alla maratona di Boston nel 2013. Nell’esplosione avvenuta a Manhattan sono rimaste ferite 29 persone e l’Fbi ha fermato cinque persone per interrogarle. Luca Pilone, dell’Ufficio beni culturali della Tavola valdese ed esperto di emigrazione valdese negli Stati Uniti, si trova a New York; abbiamo discusso con lui del clima in città in queste ore.

Come ha reagito la città a questo ennesimo attentato?

«Il clima che si respira a Manhattan è molto teso, la gente ha paura e non riesce a capacitarsi di come sia potuto accadere un fatto del genere in una città così protetta, a pochi giorni dal ricordo delle vittime dell’11 settembre 2001. La polizia e i media cercano di mantenere la calma e per la prima volta si chiede la collaborazione delle persone: sono comparsi alcuni avvisi preparati dal sindaco De Blasio e dalla polizia locale che chiedono ai cittadini se qualcuno abbia indizi per comprendere una situazione ancora molto tesa e complessa. Alcuni amici poliziotti di Manhattan mi hanno detto di non sapere quando l’area verrà riaperta. Nonostante nella “grande mela” si continui a vivere e a correre come al solito, si respira un’aria di tensione e paura».

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L’ordigno ricorda altri attentati della recente storia americana: è una percezione diffusa?

«La bomba esplosa e quella recuperata intatta e fatta brillare al quartier generale della polizia di New York sono due ordigni artigianali. Il secondo, una pentola a pressione collegata a un telefono che funziona da timer, ricorda tragicamente altri attentati, come quello alla maratona di Boston. Attentati che ricordano agli Stati Uniti che questa guerra contro il terrorismo è permanente e che può colpire ovunque senza tregua. Per alcuni amici statunitensi è assolutamente normale che si possa creare un ordigno con una pentola a pressione e con materiali che si possono trovare facilmente nei negozi; per me, da italiano, è abbastanza strano, ma per chi convive con questa situazione evidentemente è diverso».

Come si sta raccontando l’accaduto attraverso i media?

«Per la prima volta i giornali, le tv e i social stanno andando cauti, non stanno saltando alle conclusioni, ma stanno cercando di vagliare tutte le ipotesi, tanto che la parola “terrorismo” si sente poco. Tuttavia, si percepisce che la storia è in evoluzione e le forze dell’ordine stanno cercando i colpevoli di un gesto del genere. I grandi canali televisivi generalisti hanno dato la notizia e continuano a seguirla, le troupe schierate qui a Chelsea trasmettono senza sosta. Interessante il ruolo dei media locali, che stanno facendo un ottimo lavoro con aggiornamenti in tempo reale e mettendo in onda un numero di telefono per poter dare informazioni più precise su quanto accaduto».

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La politica ha già commentato i fatti?

«La campagna elettorale è stata molto violenta, si sta giocando sul personale. La narrazione della politica è orientata verso il gettare il fango sull’avversario: una situazione caratterizzata da un Trump rampante che porta avanti la politica del “no” (agli immigrati, ai musulmani, a una politica estera più dolce) e ultimamente si è presentato come un uomo tenero (da ricordare la recente intervista al Tonight Show in cui si è fatto spettinare da Jimmy Fallon). Ma gli Stati Uniti sono ancora una nazione divisa con grandi problemi che ha bisogno di una figura che riporti l’unità».

Le chiese protestanti hanno già fatto dichiarazioni?

«Fino a oggi non ancora, ma le chiese sorelle statunitensi hanno dichiarato vicinanza alle famiglie di chi è stato colpito e tutti stanno lavorando per raggiungere la verità e capire cosa sia successo. Senza uno sforzo comune questo attentato rimarrà una macchia molto forte nella storia della città di New York».

Foto: Luca Pilone

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