La crisi del mondo ortodosso
13 settembre 2016
Carol Saba, ortodosso e avvocato al foro di Parigi, ritorna sul “concilio” tenutosi a Creta a giugno e spiega perché è stato un fallimento
Fonte: Voce Evangelica
Gli ortodossi attendevano questo concilio dagli anni Sessanta del secolo scorso. Già nel 1959 Atenagora I di Costantinopoli sosteneva che il concilio sarebbe stato un “percorso comune” affinché gli “ortodossi imparino a lavorare insieme”. Il concilio doveva quindi riunire tutte le quattordici chiese ortodosse autocefale (che si autogoverna, dal termine greco kephal, che significa testa, ndr). Ma l'incontro tanto atteso, che ha avuto luogo a Creta a giugno, alla fine non è stato altro che la rappresentazione di un'unità incompiuta con dieci Chiese presenti e quattro assenti.
All'interno della Chiesa ortodossa si accentua il divario tra un establishment tradizionale sconnesso dai problemi reali, autoreferenziale, che non vede arrivare le crisi, e i chierici e laici che decriptano i “segni dei tempi” (Matteo 16) e propongono correttivi ai mali della Chiesa. In questo senso, il sinodo di Creta è stato rivelatore. L'establishment non ha visto arrivare la crisi conciliare, né ha saputo valutarne le dimensioni e gestirne le implicazioni. La sua comunicazione ha banalizzato le lagnanze delle Chiese assenti, accusate di ogni male e di essere complottiste.
Sarebbe stato più saggio fare “due passi indietro” per meglio avanzare “insieme” piuttosto che fare un passo sbagliato che crea una spaccatura tra le Chiese che riconoscono Creta come “concilio” e quelle che gli negano tale qualifica. Erano stati lanciati diversi allarmi, e molto presto, riguardo a questa crisi. Antiochia l'ha fatto sin dall'incontro dei primati ortodossi, nel marzo 2014. Per Antiochia la regola è chiara: poiché i rapporti tra le Chiese ortodosse sono legami di “comunione”, soltanto “l'unanimità” deve presiedere alla convocazione del concilio, al quorum per la sua tenuta, al proseguimento dei suoi lavori e al suo processo decisionale. Il “consenso” non può essere una regola di voto di maggioranza, ma deve significare l'unanimità.
L'aritmetica è incompatibile con l'ortodossia. A questo gioco tutti perdono. Dieci delle quattordici Chiese ortodosse costituiscono certamente una maggioranza relativa, ma le Chiese assenti da Creta (Russia, Antiochia, Georgia e Bulgaria) rappresentano da sole molto di più della metà degli ortodossi nel mondo. È evidente che, contrariamente a ciò che è stato ripetuto a Creta, il "concilio" non è stato convocato in modo valido.
Non avendo Antiochia firmato le risoluzioni degli incontri dei primati a Istanbul (2014) e Chambésy (2016), l'accordo di “tutte” le Chiese per la convocazione non era affatto assicurato. Le ambiguità originali sono quindi esplose durante il concilio. Ne sono la prova le accese discussioni a Creta in particolare sul documento “Relazioni della Chiesa ortodossa con il resto del mondo cristiano”. Questi testi necessiteranno di una rilettura critica alla luce dei verbali del "concilio", se saranno pubblicati. Diversi vescovi presenti a Creta, e non dei meno importanti, spiegano già per iscritto il loro rifiuto di firmare certi documenti, segnalando i rischi teologici e ecclesiologici. È il caso dei metropoliti Anfilochio di Montenegro, Ireneo di Backa (Serbia), Ieroteo Vlachos di Lepanto e Jeremiah della diocesi di Gortina e di Megalopoli (Grecia), Atanasio di Limassol (Cipro). Monsignor Callisto Ware (Patriarcato ecumenico) è altrettanto critico sul processo conciliare.
A Creta si è discusso di convocare il concilio ogni 5 o 7 anni, un'innovazione che sarebbe problematica e avrebbe implicazioni ecclesiologiche importanti. Pesante e costosa, sarebbe soprattutto una rimessa in discussione delle regole storiche dell'autocefalia. Nell'ortodossia nessuna autorità ha il primato sui santi sinodi delle Chiese autocefale che restano sovrane.
La crisi conciliare ortodossa ha rivelato l'incapacità delle quattordici Chiese di gestirla e di dirimere insieme le loro controversie. La proposta di convocare con regolarità il vertice dei primati (la cosiddetta "sinassi", ndr) per affrontare le questioni più spinose, è interessante. Ciò che manca all'ortodossia è infatti una struttura per il dialogo interno che si riunisca regolarmente, una specie di tavola rotonda, un G8, che permetterebbe gli scambi e la conoscenza reciproca senza dover attendere dei concili. Come uscire dunque dall'impasse ecclesiale attuale? Con la convocazione d'urgenza di una sinassi straordinaria che permetta di riconoscere la responsabilità condivisa delle Chiese e la necessità di uno sguardo retrospettivo sui processi che hanno condotto alla crisi attuale.
Il principio di un'uscita dalla crisi passa per la risoluzione immediata della controversia qatariota (ordinando a marzo del 2013 un "arcivescovo del Qatar", territorio che dipende dalla giurisdizione storica di Antiochia, Gerusalemme ha violato i canoni della Chiesa ortodossa, ndr.) per ristabilire la comunione tra Antiochia e Gerusalemme e da concessioni reciproche tra le Chiese assenti, che riconoscano una certa legittimità al sinodo di Creta e ai suoi documenti, e quelle presenti, che rinuncino ad attribuire a quell'assemblea la qualifica di “concilio”.
Una tale sinassi straordinaria dovrebbe anche rivedere tutte le politiche di “competizione” degli ultimi 20 anni tra i poli dell'ortodossia per sostituirle con politiche di “complementarietà” che implichino la cooperazione di tutte le Chiese.
Infine, non deve mancare nemmeno il rinnovamento della governance ortodossa attraverso la sistematizzazione del lavoro della sinassi senza trasformare questo incontro in un supersinodo.