Nei primi giorni di settembre si è svolta a Houston, in Texas, la Conferenza mondiale metodista, che si tiene in paesi diversi ogni cinque anni di Houston: ne parliamo con Claudio Paravati, membro del Comitato permanente dell’Opera per le chiese metodiste in Italia (Opcemi) e direttore della rivista Confronti.
Aperta con una celebrazione sul tema «Dio uno e trino», la Conferenza è stata improntata alla distinzione tra «Unità e uniformità». In che modo la Trinità si collega a questo cardine della tradizione wesleyana?
«Ha risuonato con forza ciò che in Europa siamo abituati a chiamare “unità nella diversità”. Il titolo della conferenza era “One”, proprio perché l’Uno può essere unità di ciò che è diverso e plurale, come è naturalmente il metodismo nel mondo. Vedere tutte insieme le rappresentanze da ogni angolo del mondo è stato davvero qualcosa di eccezionale, e mentre a occhio nudo le differenze emergevano (lingue, colori e suoni), si sentiva l’unità».
Unità e diversità sono parole che abbiamo sentito risuonare anche al recente Sinodo di Torre Pellice, e che ricorrono nel dialogo ecumenico: però se fosse sufficiente nominarle il dialogo fra chiese sarebbe più progredito: quali questioni sono tuttora dirimenti, anche all’interno della famiglia metodista? Sono essenzialmente di carattere etico?
«Quella di Houston è stata una conferenza coraggiosa, proprio perché non ha finto che sia sufficiente dire qualche parola-chiave o cantare insieme per essere uniti. I vari speech come anche le prediche, quotidianamente, hanno trattato di temi dirimenti quali razzismo e identità sessuale. Le parole sono risuonate sincere e schiette. Su questi temi come in ogni chiesa esiste una parte più conservatrice e una più “progressista”. Ma il tono di fondo di tutta la manifestazione è stato quello dell’apertura, il che, detto fuori dai denti, mi ha reso molto orgoglioso di appartenere a questa famiglia internazionale. La discussione era molto matura e incredibilmente vicina alla sensibilità delle nostre chiese italiane».
Le nostre chiese e quelle dell’internazionale protestante si trovano poi comunque a confrontarsi con un mondo secolarizzato: se ne è parlato? Il titolo della Conferenza terminava con la dizione «una missione»: in che cosa si concretizza quest’ultima?
«Razzismo e “tribalismo” (come lo si preferisce chiamare all’infuori dell’Occidente); migrazione e libertà religiosa; pace, giustizia, ambiente e clima; povertà e fame nel mondo. Queste solo alcune, ma forse quelle principali, delle tematiche irrinunciabili che il nuovo Consiglio metodista mondiale ha calendarizzato per i prossimi cinque anni di impegno. Questi luoghi di impegno sono inscindibili per la famiglia metodista dalla propria percezione di testimonianza della Parola nel mondo».
È in corso una durissima campagna elettorale per le presidenziali negli Usa: è entrata in qualche modo alla Conferenza?
«Durante la Conferenza è entrato poco della battaglia elettorale, ma indirettamente il tema si è sentito molto: il razzismo e l’ingiustizia sociale sono il binomio che gli Stati Uniti d’America, che hanno ospitato l’evento, hanno consegnato con forza ai lavori della Conferenza. In particolare una parola molto affascinante è stata consegnata nella predica da parte del reverendo Rudy Rasmus, della St. John’s Church di Houston».
La Conferenza riuniva rappresentanti di moltissime chiese nel mondo: da parte di chi sono venuti gli stimoli più interessanti? Che cosa significa essere metodisti «in luoghi difficili», come per esempio il Sud Africa post-apartheid?
«Senz’altro gli stimoli più importanti sono giunti dai luoghi dove il cristianesimo conosce l’elemento della crescita, cosa che invece negli Stati Uniti e in Europa non avviene. E quindi dall’America del Sud, dall’Africa e dall’Asia. Il nuovo presidente, il teologo Park Jong-Chun, è sudcoreano (per la prima volta, dunque, un asiatico come presidente), e non è un caso che venga dopo la presidenza del pastore Paulo de Tarso Oliveira Lockmann, brasiliano. Queste chiese, molto numerose e, come dicevamo, in crescita, portano con sé tutti i temi dei paesi del “sud del mondo”: giustizia, salvaguardia del creato, pace. E sono di forte stimolo per quelle europee e americane, perché, nel mondo globalizzato, c’è sintonia di tematiche pur se vissute da angolature spesso molto differenti».
Come partecipante italiano, che cosa porta a casa come arricchimento?
«Per la Chiesa metodista in Italia eravamo presenti io e Richard Kofi Ampofo, entrambi appena rieletti dal Sinodo nel Comitato permanente dell’Opcemi. Entrambi faremo parte per i prossimi cinque anni del Consiglio metodista mondiale, io impegnato nella Commissione per il dialogo interreligioso, e Ampofo nella Commissione per l’ecumenismo, diretta tra l’altro dal pastore Tim Mcquiban, in servizio presso la chiesa metodista di Ponte Sant’Angelo a Roma. Questa piccola chiesa, quella italiana, che vive nell’Unione con le chiese valdesi, potrà quindi arricchirsi tramite questa rete mondiale, di riflessioni, impegni e azioni da parte di tutto il mondo. Un arricchimento siffatto, ricco di volti, lingue, impegni e testimonianze, ha davvero dell’incredibile. Torniamo tutti arricchiti grandemente».
Ci sono già indicazioni per la prossima Conferenza?
«La prossima Conferenza si terrà in Europa, in Svezia. Grande entusiasmo da parte del vescovo del nord Europa, Christian Alsted, un amico che incontriamo nello European Methodist Council. Si arriverà a quella assise con il lavoro svolto dalle varie Commissioni, sui temi che ho citato qui sopra».
Un bel ricordo personale da Houston?
«Sono risuonate con forza le parole di stima e ringraziamento da parte del Consiglio metodista mondiale uscente, che ha ricordato come “le chiese europee, talvolta molto piccole, hanno fatto e continuano a fare azioni notevoli per la situazione dei migranti”, in riferimento a ciò che in Italia stiamo portando avanti nel progetto “Corridoi umanitari” e “Mediterranean Hope” della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, che gode del sostegno anche delle chiese metodiste europee».