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Questa mattina il Sinodo delle chiese metodiste e valdesi ha eletto la pastora Mirella Manocchio nuova presidente del Comitato permanente dell’Opera per le chiese evangeliche metodiste in Italia (Opcemi). Nata a Roma nel 1966, ha vissuto per molti anni a Palermo, dove si è occupata di immigrazione e comunicazione. Consacrata nel 2005, ha svolto il suo ministerio pastorale presso le comunità di Milano, Udine, Gorizia, Pordenone, Tramonti di Sopra, Parma-Mezzani e diaspora. È attualmente stata destinata alla cura della chiesa metodista di Roma-via XX settembre.

Che volto ha l’Opcemi che si appresta a guidare?

«L’Opcemi è una struttura di tipo amministrativo e s’inquadra nel Patto di integrazione delle chiese valdesi e metodiste. È in quest’ambito che noi metodisti conserviamo una certa autonomia sul piano amministrativo, su quello dei rapporti internazionali e dell’ecumenismo. Il Comitato permanente dell’Opcemi si presenta con un volto: al femminile, sono una pastora e mi ha preceduto in questo incarico la diacona Alessandra Trotta; giovane, perché due membri del Comitato sono persone giovani – che non significa sprovveduti! – che hanno fatto un bel percorso di lavoro e impegno all’interno e all’esterno delle nostre chiese; infine, un volto interculturale, in quanto nel Comitato abbiamo la presenza di un fratello ghanese che da tanti anni lavora nel campo dell’intercultura».

E se dovesse invece descrivere le chiese metodiste oggi?

«A questa domanda posso rispondere come pastora, a partire dal mio osservatorio, naturalmente sempre parziale e limitato, e dire che mi sembra che nelle nostre chiese ci sia un po’ di quell’affaticamento – non voglio arrivare a parlare di “astenia”, termine che è stata usata dal pastore Gianni Genre durante il culto di apertura del Sinodo –, una certa fatica nell’affrontare le sfide dell’oggi e nel ricomprendersi come comunità di persone che vivono insieme alla luce della fede di Dio, fede che i credenti vogliono inverare nella loro vita».

Quali sono le sfide che il metodismo affronta oggi?

«Un’altra sfida importante è quella di proseguire con il progetto essere chiesa insieme, che non è solo un aspetto della nostra testimonianza ma attraversa tutto il nostro modo di essere chiesa in questa società che si evolve. Da una parte c’è la secolarizzazione, che sebbene sembri allontanare le persone dalla istituzione chiesa al tempo stesso ne pone tante alla ricerca di una nuova forma di spiritualità, dall’altro c’è il terrorismo di stampo islamico, o tale si definisce, che mette in questione molto del nostro vissuto, del nostro concetto di democrazia, e solleva domande sulla nostra responsabilità nei confronti dei paesi in Medio Oriente, Africa. È un orizzonte ampio ma le nostre chiese vivono nella società, anche se viene detto che non sono della società, e quando si è pastori e pastore ci si trova ad affrontare tutto ciò insieme ai membri di chiesa»

Quale può essere il contributo specifico dei metodisti all’interno del protestantesimo italiano che quest’anno celebrerà i 500 anni della Riforma?

«Il metodismo ha alcune caratteristiche che, all’interno del Patto di integrazione che ormai ha superato i 40 anni, sono diventate patrimonio anche del mondo valdese. In particolare penso all’interesse per ciò che è liturgico, innologico, come espressione della propria fede. Il metodismo in quest’ambito ha dato un contributo molto originale. Inoltre, all’interno della Riforma protestante – da un lato il luteranesimo e dall’altro il calvinismo – il metodismo è tra le componenti più grosse che ha dato forza al Risveglio. Quindi, visto che prima parlavo di stanchezza delle chiese, potrebbe essere interessante recuperare quegli elementi caratterizzanti il risveglio per affrontare l’affaticamento che molte delle nostre comunità stanno vivendo.

A livello poi più generale, uno degli specifici del metodismo in ambito italiano è quello di far parte di una grande famiglia internazionale e di aver portato, anche nel Patto di integrazione, tutto quel bagaglio di conoscenze, di rapporti, di legami con l’ecumene metodista internazionale».

C’è un testo biblico che l’ha accompagnata in questo tempo che precede l’avvio di questo nuovo incarico?

«Ce ne sono due almeno. Uno è presente nella I lettera ai Corinzi (11, 11-12), ma si trova anche in Galati (3, 28), ed è il testo in cui si dice «Non c’è qui né giudeo né greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù». Questo testo ha attraversato il mio percorso in varia misura, prima di tutto nella misura in cui siamo insieme come metodisti e valdesi da più di 40 anni, tempo in cui abbiamo messo insieme le nostre ricchezze, doni e specificità nel progetto comune; inoltre, nel fatto che ormai da più di 20 anni è cresciuta la visione dell’essere chiesa insieme; e nel fatto che nelle nostre chiese ci sia il sacerdozio femminile. Tutti questi elementi confermano quanto detto nelle lettere paoline e cioè che tra noi ci sono differenze che permangono, ed è bene che ci siano perché altrimenti andremmo verso un pensiero unico che non è ciò a cui ci chiama il Signore che invece ci chiede di unire queste nostre specificità per un progetto comune che è la visione del Regno di Dio.

Il secondo testo è un po’ più personale ed è tratto da Filippesi 4, 5b-7: «Il Signore è vicino. Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù». In questo testo ci viene ricordato che il Signore è vicino a noi, che possiamo rivolgerci a Lui in preghiera e che, di fronte alle sfide della nostra società e a tragedie come quelle che si stanno vivendo nei comuni colpiti dal terremoto; Lui è aperto ad ascoltarci, a recepire quello di cui abbiamo bisogno, e a sostenerci». 

Immagine: di Pietro Romeo