Prevenire è meglio che curare!
10 agosto 2016
Alla XXI Conferenza internazionale sull’Aids, l’approccio «sociale» del discorso religioso rischia di eludere il problema medico
Dal 1985 a oggi, sono 21 le Conferenze Interazionali sull’Aids organizzate dall’International Aids Society (Ias), l’associazione che affronta su scala mondiale la piaga del «virus dell'immunodeficienza umana», universalmente noto con la sigla inglese HIV. Coordinati dalla Ias, ogni due anni scienziati, personalità politiche e membri della società civile si incontrano in una città del mondo per fare il punto e rilanciare iniziative condivise (fino al 1994 la Conferenza si tenne addirittura con scadenza annuale). L’AIDS2012 si era riunita a Melbourne (Australia) – un’edizione sconvolta dall’abbattimento del Boeing della Malaysian Airlines, a bordo del quale si trovavano i delegati dell’Organizzazione mondiale della sanità, diretti alla Conferenza – quest’estate invece la città designata è Durban, in Sud Africa.
Apertasi il 18 luglio, i lavori dell’AIDS2016 si chiuderanno nel pomeriggio di oggi. Ad essersi già concluso è invece il pre-forum di carattere religioso che anche quest’anno ha anticipato l’inaugurazione della Conferenza maggiore, riunendo a dibattito rappresentanti laici e religiosi di organizzazioni provenienti da tutti i continenti. Il principale occhio ecumenico aperto sull’«inter-faith pre-conference» (questo il nome in inglese) è il sito web del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec), che per pubblicizzare e seguire i lavori del 16-17 luglio ha aperto una sezione dedicata. Insieme al Christian Aids Bureau for Southern Africa (Cabsa) il Cec è infatti co-organizzatore della pre-conferenza, un impegno in linea con il programma Ehaia (Ecumenical Hiv and Aids Initiatives and Advocacy) lanciato nel 2002 per promuovere competenze nelle chiese e facilitare la cooperazione degli istituti cristiani su un tema di rilevanza planetaria. In termini molto generali, il programma Ehaia – il cui mandato è stato esteso a paesi non africani – mira a non lasciare sole le persone che convivono con l'Hiv (disabili, adolescenti, giovani, donne, uomini, nonni, tossicodipendenti, detenuti, migranti, minoranze sessuali e tutti i gruppi emarginati) impegnandosi affinché capi di chiesa e teologi di tutto il mondo coinvolgano questi esclusi, «colpevoli di essere malati».
Stando a quanto emerge dal sito del Cec, un approccio analogo ha animato l’incontro preparatorio, quest’anno intitolato Faith on the fast truck («Le fedi in prima linea»). Come osservato dai suoi partecipanti, in diverse parti del mondo la mobilitazione religiosa di un leader, di un’organizzazione o di un’intera comunità può aiutare i malati di Aids a uscire dal buio della discriminazione. Ma è proprio su questa definizione parziale del problema che il discorso religioso continua a dimostrare una certa debolezza: se è indubbio che in singole comunità di fede azioni di carattere religioso possono alleviare l’emarginazione sofferta dalle persone sieropositive, favorire l’accesso ai servizi sanitari o addirittura contribuire al presidio dei diritti umani fondamentali – sono queste le priorità strategiche individuate dalla «pre-conference» –, è altrettanto vero che un’azione che consideri unicamente la dimensione «sociale» di chi ha già contratto il virus è e rimarrà un’azione dimezzata, perché di fatto trascura le debolezze dei soggetti ancora sani in pericolo di contagio. Tre sono le vie di trasmissione dell’HIV – sessuale, ematica o materno-fetale – ma la prima modalità di contagio è di gran lunga la più diffusa a livello mondiale e non troverà soluzione sufficiente nella lotta allo stigma sociale della persona già infetta. In estrema sintesi, per inserirsi davvero nel solco della strategia UNAIDS lanciata dalle Nazioni Unite – la quale, lo ricordiamo, a fronte dei 2 milioni di nuovi contagi contratti a livello mondiale nel 2015, si propone, entro il 2030, l’ambizioso obiettivo di non superare la soglia delle 200.000 infezioni annue – anche il discorso religioso dovrebbe cercare d’incorporare l’approccio medico-scientifico, senza più trascurare la dimensione sessuale del fenomeno Aids.
Colpisce, navigando il materiale sul sito del Cec (in questi giorni in continuo aggiornamento, per cui sarà bello venire smentiti), l’assenza della parola «prevenzione», come se il contributo di fede alla lotta all’Aids potesse essere portato solamente dopo il contagio, nel momento della «cristiana cura». Colpisce soprattutto dalla piccola (e periferica?) ottica valdese, la cui campagna Otto per mille del 2007 recitava: «Un pozzo per l'acqua, un profilattico contro l'Aids, un sorriso alla vita». La pastora Maria Bonafede, al tempo moderatora della Tavola valdese, illustrò con queste semplici parole gli obiettivi di quella campagna: «Abbiamo dei progetti finanziati con l'Otto per mille che portano l'acqua là dove non c'è, perché dove c'è l'acqua c'è vita; tramite altri progetti soprattutto in Africa, offriamo dei profilattici ai malati di Aids, unica soluzione efficace per evitare che si propaghi questo male mortale e quindi a favore della vita; con i nostri progetti cerchiamo di restituire il sorriso a chi non ce l'ha più». Quanta concretezza, quanta onestà intellettuale in queste poche e semplici parole «locali». Una semplicità che a quanto s’intuisce da qui, fatica a essere pronunciata a Durban, dov’è riunito, complesso, «il mondo».