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A caccia di migranti nei Balcani

Nonostante la “rotta balcanica” sia considerata chiusa da mesi, per i cittadini di Paesi come la Bulgaria, la Serbia e l’Ungheria le migrazioni sono ancora considerate un’emergenza

All’inizio della settimana il governo serbo ha istituito una forza congiunta di militari e polizia che sarà disposta lungo i confini con Bulgaria e Macedonia per controllare il flusso di migranti. In teoria, lungo i Balcani non dovrebbe passare nessuno da mesi, visto che dopo l’accordo del 18 marzo scorso tra alcuni governi dell’Unione europea e la Turchia i vertici europei si erano affrettate ad annunciare la chiusura della cosiddetta “rotta balcanica”. Eppure non è così.

Secondo Gian Marco Moisè, collaboratore di East Journal e specializzato nei fenomeni sociali dell’Europa orientale, «la “rotta balcanica” è chiusa solo secondo le dichiarazioni dei leader europei, ma concretamente esiste ancora ed è aperta».

La decisione del governo serbo, che segue di un anno quella ancor più radicale dell’Ungheria di Orbán, è stata presa in seguito all’allarme lanciato da diverse testate serbe, che la scorsa settimana hanno insistito molto sulla ripresa dei flussi, parlando di «un numero significativo di migranti provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa che entravano nel paese da entrambi i paesi vicini ogni giorno». L’istituzione della forza congiunta da parte del governo serbo non rappresenta un fatto isolato, ma può essere letta come un salto di qualità nei confronti della Bulgaria, protagonista da mesi di azioni che sono il segno di un clima sempre più mirato al respingere i migranti e a sigillare i propri confini. «Da mesi in Bulgaria – racconta ancora Moisè – ci sono gruppi di cittadini volontari che organizzano pattuglie al confine con la Turchia con l’obiettivo di impedire l’accesso al Paese da parte di migranti che cercano di entrare illegalmente sul territorio nazionale».

Parliamo di un fenomeno in crescita?

«Sì, negli ultimi mesi è diventato sempre più frequente vedere gruppi come questi, soprattutto per gravi mancanze da parte della polizia di frontiera. Addirittura, ad aprile il gruppo nazionalista Organizzazione per la protezione dei cittadini bulgari, che si era reso protagonista dell’arresto di 23 migranti, è stato premiato dal capo della polizia di frontiera, Antonio Angelov, che all’emittente bulgara Nova Tv ha dichiarato di volerli incoraggiare “perché si sono comportati in maniera appropriata”. Questi gruppi autorganizzati vengono spesso seguiti proprio dalle televisioni: per esempio in questo caso i volontari erano seguiti dalla troupe televisiva di un programma chiamato “No man’s land”, che significa per l’appunto “terra di nessuno”. Tuttavia va sottolineato che l’immigrazione clandestina è illegale in Bulgaria tanto quanto l’arresto da parte di privati cittadini».

In base a quale legittimità si compiono queste azioni?

«Nessuna. Sono gruppi autorganizzati rispetto ai quali in un primo momento il governo era stato in silenzio, di fatto incoraggiandoli, ma a proposito dei quali qualche settimana fa il ministro degli interni Philip Gounev ha dichiarato che “con le loro azioni i vigilanti stanno mettendo a repentaglio la fiducia nella polizia di frontiera”. Queste associazioni sono supportate soprattutto dalla stampa e dalla Tv, anche grazie alla loro capacità di “fare notizia” e di destare scandalo. Ricordo un servizio dedicato a un volontario, Dinko Valev, un 29enne wrestler semiprofessionista di Yambol che con un gruppo di amici si allenava ad atterrare i migranti che passavano illegalmente la frontiera quasi fosse uno sport, motivando il tutto con convinzioni totalmente ideologiche. Nel servizio Valev diceva che “gli immigrati sono persone cattive e pericolose. Dovrebbero rimanere a casa loro, sono terroristi”».

Queste affermazioni e queste azioni trovano supporto in seno alla popolazione?

«Sì, questi gruppi sono assolutamente supportati dai cittadini. La maggior parte dei cittadini bulgari è d’accordo con queste azioni, perché siamo in una condizione di grave mancanza di una polizia di frontiera che garantisca un passaggio regolare dei migranti.

Queste associazioni hanno un grande supporto e sono diventate sempre più diffuse e frequenti, con nomi sempre diversi. Ciò che colpisce è che sia quasi diventato uno sport: si parla del migrante come di un animale, una preda, al punto che si parla di “cacciatori di migranti” e non di esseri umani, di rifugiati politici o migranti che scappano da una situazione economica più o meno grave».

La notizia di qualche giorno fa è che la Serbia ha inviato una forza congiunta tra militari e polizia al confine con la Bulgaria per sigillare i propri confini. Anche questo va imputato a un clima di sfiducia nei confronti della polizia di frontiera bulgara?

«La decisione della Serbia di mandare le truppe al confine con Bulgaria e Macedonia non deve stupire, perché si inscrive in un panorama di chiusura complessiva dei paesi europei nei confronti del fenomeno migratorio. Ricordiamo che la situazione l’anno scorso in Serbia è stata di difficoltà, perché c’è stato un transito di 650.000 persone che attraversavano la Serbia per andare verso il nord Europa, l’Austria e la Germania, passando spesso per l’Ungheria, che come sappiamo ha chiuso il confine con la Serbia attraverso la costruzione di una recinzione e ha messo l’esercito e la polizia di frontiera a controllare queste recinzioni. Il discorso è per l’appunto che l’Ungheria è stata in grado di bloccare fisicamente il passaggio di migranti, ma questo ha portato la Serbia a parlare di emergenza nazionale soprattutto per i migranti che sono al confine tra Serbia e Ungheria e che stanno cercando di transitare. Le cifre si aggirano intorno ai 100.000 passaggi nella prima metà di quest’anno, il che significa che c’è stato un sensibile calo dei passaggi».

Nonostante questo, però, si continua a percepire il fenomeno migratorio come emergenza in gran parte dei Balcani, sia occidentali sia nelle aree di Bulgaria e Ungheria. Che cosa servirebbe a questi Paesi per leggere in modo diverso il fenomeno?

«Prima di tutto un’informazione diversa: Bernard Cohen nel 1963 scriveva che “la stampa non può essere efficace nel dire alla gente cosa pensare, ma è incredibilmente efficace nel dire ai suoi lettori a cosa pensare”. Ecco, la stampa non è in grado di far cambiare idea ai cittadini, ma è in grado di puntare il dito su quali sono i problemi. L’associazione di idee che avviene continuamente in questi mesi è quella tra terrorismo e migrazione, ma anche questo si tratta di un falso informativo, di un’idea, di un pregiudizio che è sbagliato alla radice. Non c’è una correlazione tra questi due fenomeni, nel senso che la migrazione è un fenomeno naturale che è sempre esistito. Coloro che hanno promosso gli attentati in Europa non sono migranti, e per questo spesso diciamo che i nemici ce li abbiamo già in casa. Se si vuole risolvere il problema terroristico lo si può risolvere solo attraverso un processo di integrazione di quelli che sono gli esclusi, che siano i cittadini di seconda generazione o gli esclusi dal contesto sociale, e sono proprio le persone marginalizzate a compiere questi attacchi terroristici. Il problema può essere risolto solo attraverso l’integrazione, attraverso politiche migratorie affidabili e promosse dell’Unione europea, nel senso che ci dev’essere una regia di fondo per la gestione di questo fenomeno. Non possiamo delegare tutto a singoli Paesi come la Serbia, la Bulgaria e l’Ungheria, altrimenti la risposta non può essere diversa dal costruire recinzioni e cercare di fermare i migranti».

Immagine: via flickr.com

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