Da Guantánamo all’Italia, un viaggio lungo 7 anni
La vicenda di Suleiman, che nel 2009 aveva ottenuto il diritto di lasciare la struttura senza però trovare un Paese che lo ospitasse, si conclude con il suo arrivo nel nostro Paese, anche se rimangono molti punti ancora poco chiari
Nei giorni scorsi il governo italiano ha annunciato di aver accettato di accogliere per motivi umanitari un cittadino yemenita detenuto da 14 anni nel carcere statunitense di Guantánamo, situato nell’omonima baia sull’isola di Cuba. Il prigioniero, Fayiz Ahmad Yahia Suleiman, attendeva questa decisione dal 2009, l’anno in cui il governo degli Stati Uniti aveva autorizzato il suo rilascio a patto che uno tra i Paesi alleati accettasse di accoglierlo, senza successo fino a pochi giorni fa.
Per Alessio Scandurra, responsabile dell’osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione, quella di Suleiman «è una vicenda abnorme dal punto di vista dei diritti umani e delle garanzie», perché secondo le schede segrete dei detenuti di Guantánamo pubblicate da Wikileaks cinque anni fa, sul suo conto non si ritrova alcuna accusa formale, nonostante fosse detenuto dal 17 gennaio 2002, appena sei giorni dopo la creazione del carcere. Tutto quel che emerge dal suo profilo è che il dipartimento della Difesa statunitense ancora nel 2008 lo riteneva un «detenuto ad alto rischio», perché era probabile che rappresentasse ancora «una minaccia per gli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati», una posizione costruita sulla testimonianza di un altro prigioniero, Muhammad Basardah, ritenuto alcuni anni dopo una fonte non attendibile. «Quello che sappiamo su Suleiman – prosegue Scandurra – è una storia presunta, è una vicenda ricostruita grazie al lavoro giornalistico, ma non è una verità giudiziaria». L’opacità delle storie dei detenuti di Guantánamo è una costante, sia per quanto riguarda le motivazioni, sia per le condizioni della detenzione in un luogo che per l’informazione rappresenta una specie di “buco nero”. «Comunque – precisa Alessio Scandurra – se si dovesse trattare davvero di un terrorista, non sarebbe certo l'unico che abbiamo oggi nelle carceri italiane. La nostra speranza è che venga trattato come noi dovremmo trattare i terroristi nel nostro sistema penale penitenziario, cioè nel pieno rispetto delle garanzie del giusto processo e dell'esecuzione della pena secondo la legge e secondo la Costituzione. Almeno in questo caso dopo tanti anni si rientra in una parvenza di normalità, quella che ci si dovrebbe sempre attendere nei casi di privazione della libertà».
La decisione del governo italiano è importante, ma sono ancora molti i punti poco chiari. Le prime trattative per il rilascio di alcuni prigionieri e la loro accoglienza nel nostro Paese risalgono addirittura al 2009, quando l’allora ministro degli Esteri del governo Berlusconi, Franco Frattini, dichiarò pubblicamente di voler aiutare il neoeletto presidente statunitense Obama a realizzare il suo progetto di chiusura di una struttura che nella campagna elettorale dell’anno precedente era stata definita un “mostro giuridico” da parte dello stesso candidato Democratico. In occasione di uno dei primi incontri a Washington, Frattini offrì agli Stati Uniti la possibilità di ricollocare nel nostro Paese alcuni dei prigionieri, con lo scopo di reintegrarli, ma cercando anche di limitarne i movimenti all’interno delle frontiere europee, per tranquillizzare le forze politiche maggiormente contrarie all’idea. Nel novembre del 2009 due detenuti di Guantánamo vennero trasferiti in Italia, e a distanza di 7 anni, a pochi mesi dalla fine del secondo mandato di Obama, anche per il prigioniero yemenita è arrivato il “via libera”. Non è tuttavia chiaro se Suleiman sia già arrivato in Italia o per quando sia previsto il suo arrivo, così come non è chiaro quale sarà il suo status giuridico. «Su questo non ci sono notizie ufficiali – ricorda Scandurra – e quindi non c'è modo di sapere cosa succederà. Si può presumere che si vada comunque verso l’applicazione di una misura limitativa della libertà o una pena alternativa, come l’obbligo di firma o una misura domiciliare. Vedremo in quale ricadrà e cercheremo nei limiti del possibile di informarci, anche se dobbiamo sempre tenere presente che esiste anche un diritto alla privacy, per cui questa persona ha anche diritto di scegliere di passare nell'anonimato, di cercare di sottrarsi al circo mediatico che si sta un po' scatenando. Quello che è importante per Antigone è che l’esecuzione dell’eventuale pena venga scontata secondo tutte le garanzie che la Costituzione prevede».
Fin dalla sua creazione, l’11 gennaio 2002, il campo di prigionia di Guantánamo ha attirato su di sé le critiche di tutte le principali organizzazioni in difesa dei diritti umani, in profondo disaccordo con la posizione dell’allora presidente statunitense, il repubblicano George W. Bush, che riteneva Guantánamo l'unica soluzione per “rendere inoffensivi” i membri di al-Qaeda più pericolosi, quelli che il segretario alla Difesa di allora, Donald Rumsfeld, definì “il peggio del peggio”.
Il dubbio che le estreme condizioni detentive, già di per sé disumane, fossero immotivate per gran parte dei prigionieri anche sotto la lente della “sicurezza nazionale” è poi diventata certezza nove anni dopo, quando nel frattempo nel campo di prigionia erano già state rinchiuse 779 persone: sempre secondo le rivelazioni di WikiLeaks, soltanto 220 prigionieri erano ritenuti terroristi di primo livello, mentre il resto erano soldati di livello medio e basso, o addirittura del tutto innocenti, come nel caso di 150 detenuti.
Anche per questo, per chi si occupa di detenzione Guantánamo è «l'opposto dello stato di diritto. È la negazione dello Stato di diritto per come l'abbiamo conosciuto e per come lo conosciamo. Il potere statuale – ricorda Alessio Scandurra – è, e dev'essere, il potere più penetrante in ogni territorio, la forza più grande, e proprio per questo è anche il potere che ha bisogno di essere più regolato e disciplinato, proprio per la sua forza eccedente rispetto a quella dei singoli cittadini, che si trovano davanti allo Stato. Quando lo Stato rifiuta di farsi regolare, di farsi disciplinare siamo davanti a forme di arbitrio che sono state normali nella nostra storia prima della modernità ma che oggi non sono normali per niente. Era normale che il sovrano facesse quel che gli pareva, ma per fortuna ci siamo lasciati questi giorni alle spalle, e per questo fa impressione trovare sacche di cultura giuridica premoderna in un Paese civile come gli Stati Uniti».
Con questo rilascio il numero di detenuti nel campo di prigionia di Guantánamo scende a 78, un numero nettamente inferiore rispetto ai momenti di massimo popolamento, ma ancora lontano dalla chiusura. Il fatto che Guantánamo sia ancora aperto e operativo, seppur in misura nettamente inferiore rispetto al passato, rappresenta uno dei più grandi fallimenti dell’era Obama in termini di diritti, dovuto al veto imposto a più riprese dalla maggioranza repubblicana al Congresso, contraria al superamento del campo di prigionia. La strada che l’amministrazione Obama sta percorrendo, e che potrebbe essere seguita anche da un’eventuale presidenza Clinton, è quella di portare Guantánamo alla chiusura di fatto, svuotando la struttura e rendendola quindi inutile. Per fare questo, il supporto degli alleati e la disponibilità a ricevere prigionieri è centrale. «Il tema è ovviamente politico e non giuridico – conclude Scandurra – ma tutti gli strumenti sono utili per arrivare alla chiusura di Guantánamo, e la decisione di accogliere un detenuto è un atto più forte di moltissime parole che si sono spese nella diplomazia internazionale e che spesso lasciano il tempo che trovano».