Come si racconta la violenza di genere?
03 giugno 2016
Il 2 giugno si sono svolte decine di flash mob in tutta Italia contro la violenza sulle donne, dopo l’ennesimo femminicidio verificatosi alla Magliana (Roma). Riflettiamo sul ruolo della comunicazione e del linguaggio utilizzati con Cristina Obber, giornalista e scrittrice che si occupa di violenza di genere
La comunicazione e il linguaggio che utilizziamo, soprattutto nell’ambito giornalistico, rischiano di essere un’altra forma di violenza contro le donne. Dopo l’ennesimo caso di femminicidio di una ragazza di vent’anni a Roma si è tornati a parlare di «sentimenti feriti» dell’assassino, di «delitto passionale» o di «delitto d’amore», quando sappiamo che nella violenza non c’è alcuna traccia di amore, semmai di possesso, di frustrazione o di ossessione.
«Quando definiamo passionali i delitti, continuiamo a perpetrare violenza sulle donne – spiega Cristina Obber, giornalista e scrittrice che si occupa di violenza di genere –. Veniamo da una cultura del delitto d’onore, che è stato abolito soltanto nel 1981; addirittura, fino al 1996 dicevamo che lo stupro era un reato contro la morale e non contro la persona».
In questo modo continuiamo a portarci dietro quello che eravamo, anche con le parole, e molto spesso il problema alla base di questo processo è una mancanza di educazione all’altro: «manca totalmente la formazione su questi temi da parte di chi fa il giornalista, il magistrato, lo psicologo, e così via. Finché non si comincerà a investire seriamente sulla formazione delle professioni, continueremo a sentir parlare di amore dentro a un femminicidio».
Se non siamo attenti al linguaggio siamo complici?
«Sì. La cosa tremenda è che si fanno grandi proclami, ma poi nella sostanza non si opera per il cambiamento. Il piano antiviolenza che abbiamo, parla di sensibilizzazione, ma dove parla di formazione lascia spazio alla buona volontà dei singoli soggetti. Anche la formazione diventa facoltativa: nelle scuole ci sono le linee guida, ma non sono vincolanti. Se il tema è importante, occorre inserirlo nella procedura, suggerirla non basta. Se non si investe nella formazione e preparazione delle persone che con le loro professioni hanno a che fare con la realtà della violenza, le cose non cambieranno. Chi legge i titoli dei giornali e non ha tempo di approfondire, si fa portatore lui stesso di stereotipi che continuano ad abbinare l’amore all’omicidio».
Cercando le cause del problema, è giusto ragionare sulla dicotomia maschi e femmine?
«Certamente la violenza sulle donne è un problema maschile che ricade sulle donne. Viene sempre messa al centro la figura femminile, come quando una donna subisce uno stupro: si interrogano tutti sui centimetri della gonna che indossava. L’attenzione dovrebbe invece essere concentrata sul maschio, sull’egocentrismo, sull’incapacità di accettare un rifiuto: quando si fa, si parla di raptus di un pover’uomo. Ma il punto è il bisogno di perpetrare un controllo sull’altro, un disequilibrio di dominio sull’altra persona che sicuramente è iniziato molto tempo prima. Il femminicidio non è mai un salto nel buio, il raptus non esiste. Gli autori dei femminicidi sono soggetti con le stesse caratteristiche: uomini che controllano la vita della propria compagna, che esercitano una violenza psicologica di qualche tipo, che precede quella fisica. Spesso questa violenza non viene socialmente riconosciuta, né dagli uomini, e spesso neanche dalle donne, perché siamo tutti e tutte permeati da questa cultura. Quando viene riconosciuta non vi è istituzionalmente una società che può dare sostegno a chi vuole uscire da queste situazioni; saper valutare i rischi di uno stalker, per esempio, salverebbe la vita a molte donne».
Non ci sono delle reti antiviolenza?
«Abbiamo una rete che si chiama Dire, sigla che sta per Donne in rete contro la violenza, dove ci sono delle professioniste che lavorano da decenni contro la violenza sulle donne, ma nelle scuole dove vado, negli uffici postali, in banca o all’Asl non vedo mai dei poster o manifesti che informino cittadini e cittadine sull’esistenza di questi luoghi, dove non bisognerebbe arrivare con lividi o gli occhi neri. Questi centri si occupano di tutte le forme di violenza, anche di quelle difficili da riconoscere, ma invece di potenziarli, il Governo ha tagliato i fondi. Non si può pretendere che questa rete importante si basi esclusivamente su una forma di volontariato. Abbiamo ratificato la Convenzione di Istanbul, che ha delle linee ben precise, ma poi tutto viene lasciato al pressappochismo: senza finanziamenti non si va avanti. È la volontà di chi fa politica che cambia le cose, i proclami non bastano».
Anche qui la soluzione è l’educazione?
«Sì, sebbene abbia strade difficili. Ricordiamo la campagna contro il famoso gender, ma l’educazione di genere non è altro che l’educazione al rispetto delle differenze e dell’altro, l’abc della convivenza tra le persone. Chi organizza campagne omofobe contro l’educazione di genere nelle scuole è lo stesso che fa della sottomissione femminile un’altra delle proprie bandiere. Non vogliamo tornare indietro, ma lo stiamo facendo. Si pensi anche alla legge 194 sull’interruzione di gravidanza, che sembrava un diritto acquisito, ma che torna nuovamente in discussione. Nelle scuole tutto è affidato alla buona volontà di certi insegnanti che organizzano incontri e dedicano il loro tempo a questi temi. Trovo ragazzi e ragazze delle superiori che mi parlano tranquillamente degli appellativi che utilizzano tra loro, come “troia” o “cagna”: spesso la reazione è “cosa vuole che sia”, ma le parole sono importanti e se non si creano questi momenti educativi, come in molti altri paesi d’Europa, non andremo da nessuna parte. Se più di cento uomini fossero uccisi da mogli, amiche o ex fidanzate, i giornali direbbero che le donne italiane sono impazzite: invece il femminicidio è diventato qualcosa che può accadere».
Quali reazioni hanno i giovani con cui lavora su questi temi?
«Il mondo giovanile viene mal rappresentato mediaticamente, si dà spesso un’idea di piattume, di inconsapevolezza e superficialità, che esiste solo in parte. Sono stata invitata più di una volta dai ragazzi stessi che hanno organizzato incontri per parlare di stupro, per esempio. I giovani si stupiscono quando li ascoltiamo, anche loro sono intrisi di stereotipi, ma hanno uno spirito critico forse maggiore delle generazioni precedenti, oltre a essere molto veloci a mettersi in moto e ad essere propositivi. Dovremmo sempre parlare più con i giovani che dei giovani, anche su questi temi».