«Chiuderemo i campi profughi»
13 maggio 2016
Imitando un refrain elettorale di moda anche in Occidente, il presidente del Kenya mette in allarme la comunità internazionale e prelude all’ennesima crisi umanitaria del continente africano
«Alla luce delle circostanze, viste e considerate le priorità imposte dalla sicurezza nazionale, il governo della Repubblica del Kenya ha deciso di porre fine all’ospitalità dei rifugiati». Con queste parole il governo keniano ha annunciato che chiuderà tutti i campi profughi del paese, una mossa che incrocia i destini di almeno 600.000 persone altamente vulnerabili. Una settimana prima di questo proclama il presidente keniano Uhuru Kenyatta aveva inaugurato in pompa magna la propria campagna elettorale (le elezioni si terranno l’anno prossimo). La coincidenza non fa ben sperare: come tutti i leader del mondo odierno – dagli Stati Uniti, dove Trump agita lo spauracchio dell’immigrazione messicana, ai paesi europei, che nel nome della «crisi migratoria» mettono a repentaglio la libertà di circolazione dei loro stessi cittadini – anche Kenyatta conta di raccogliere consensi facili speculando sulla pelle dei deboli che non votano. Tuttavia l’Africa non è l’Europa e la posizione geografica del Kenya, stretto tra Sud Sudan, Tanzania e Somalia, rende evidente perché promesse politiche di questo tenore suonino ancor più inquietanti alle orecchie delle organizzazioni umanitarie internazionali.
Diamo un rapido sguardo oltre confine. In Sud Sudan – che nel 2011 si è staccato per via referendaria dal Sudan – è attualmente in corso una guerra interetnica di cui non si intravede la soluzione; in Somalia invece la guerra civile prosegue senza sosta dai primi anni Novanta: una calamità che si ripercuote da sempre sulla debole economia keniana e che in tempi più recenti è stata aggravata dalle scorrerie terroristiche di gruppi jihadisti legati ad Al Quaeda e finanziati dalla celebre pirateria somala – è ancora calda, in Kenya, la ferita del 2 aprile 2015, quanto un commando di miliziani somali appartenenti all’organizzazione terroristica Al Shabaab fece irruzione nel campus universitario di Garissa, facendo massacro degli studenti cristiani.
Se questo è il contesto, il messaggio del presidente Kenyatta è chiaro: contro il terrorismo d’ora in avanti saremo inflessibili. Ma un conto sono i proclami elettorali, un altro la chiusura effettiva di campi profughi sterminati, che il tempo ha trasformato in vere e proprie città; un’operazione contraria al buon senso prima ancora che al diritto internazionale codificato dalle Nazioni Unite. Sorto agli inizi degli anni Novanta, a cento chilometri dal confine somalo (proprio nel distretto di Garissa), il campo di Dadaab attualmente al centro delle polemiche è descritto da tutti i giornali internazionali come «il campo profughi più grande del mondo». Gestito dall’Alto commissariato della Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), Dadaab ospita oggi 350.000 rifugiati.
Ora, quand’anche si fosse disposti a calpestare nello stesso mosto i diritti umani e la coscienza di un paese che fa della sua fede cristiana un elemento identitario, sorgono spontanee alcune domande «pratiche». Come si pensa di riportare, fisicamente, centinaia di migliaia di persone in zone di guerra? Come si pensa di farlo senza la cooperazione del governo somalo e senza coinvolgere le Ong impegnate da anni in quei campi? Con quali risorse intende agire il governo kenyano?
In mancanza di risposte, la speranza è che il capo popolo stia alzando i toni per guadagnare consenso e spingere qualche somalo a rimpatriare sull’onda dell’intimidazione. Dopotutto, in Kenya si è perso il conto delle minacce della politica ai profughi. Già un mese fa Medici Senza Frontiere, attiva a Dadaab da vent’anni, aveva diramato un comunicato per chiedere al governo kenyano di ritrattare le proprie irresponsabili esternazioni.
Come accade in molti stati africani, buona parte del problema risiede nella credibilità della classe politica di governo. Se Al-Shabaab rappresenta senza dubbio una minaccia alla pace kenyana, il curriculum del presidente Kenyatta, garante dell’ordine e nemico dei terroristi, non è d’altro canto rassicurante. Discendente diretto del padre della patria che conquistò l’indipendenza al paese, nell’ottobre 2014 Kenyatta fu il primo Capo di Stato in carica del mondo a comparire dinanzi alla Corte penale internazionale dell’Aja con l’accusa di crimini contro l’umanità. Le prove raccolte sulle violenze che all’indomani delle elezioni del 2007 provocarono morte e deportazioni nelle fila dell’opposizione di etnia Luo furono insufficienti per incriminare il presidente, che da allora non perde occasione di farsi beffe degli organismi internazionali nei suoi discorsi pubblici.