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Laicità in salsa turca

In attesa di una nuova Costituzione, che sarà probabilmente segnata dall’influenza dell’islam sunnita, si teme per i diritti delle minoranze religiose

Niente laicità, siamo musulmani. E’ questo il senso dell’affermazione del presidente del Parlamento turco, Ismaïl Kahraman, che lo scorso 25 aprile ha dichiarato, a proposito della nuova Carta costituzionale che dovrebbe sostituire quella in vigore, promulgata dopo il golpe militare del 1980: «siamo un paese musulmano e di conseguenza dobbiamo avere una Costituzione religiosa». Le reazioni non si sono fatte attendere e il giorno successivo le strade delle principali città turche si sono riempite di manifestanti intenzionati a difendere una Carta costituzionale libera da condizionamenti religiosi. Duri gli scontri con la polizia, che non ha esitato a usare lacrimogeni e proiettili di gomma, secondo un’usanza diventata prassi dopo le manifestazioni antigovernative di piazza Taksim del 2013.

Kahraman, figura di spicco del governo di Erdogan, ha espresso la sua posizione durante una conferenza dal titolo “Nuova Turchia e nuova Costituzione”, sottolineando che «le festività religiose sono festività ufficiali, le classi di religione sono obbligatorie e la Costituzione ha una struttura basata sulla fede. Questo significa che si tratta di una Costituzione religiosa, non secolare». Repetita iuvant, sicuramente, ma le sue parole hanno suscitato una risposta così forte dalle opposizioni da spingere il premier Davutoglu a prendere una cauta distanza da Kahraman e a dichiarare che il principio di laicità sarà conservato per garantire la libertà di culto a tutti i cittadini.

La fuga in avanti del presidente del Parlamento, però, non lascia indifferenti gli osservatori, che ben conoscono l’atteggiamento del presidente Erdogan in tema di religione. Negli ultimi due anni il governo ha abolito il divieto alle lavoratrici di indossare il velo nelle scuole e negli uffici pubblici, ha limitato le vendite di alcol e cercato di mettere fuori legge i dormitori misti nelle università; in più occasioni, inoltre, ha ribadito il ruolo subalterno della donna, a cui sarebbe riservato il compito di essere madre, «secondo l’insegnamento dell’Islam».

Un episodio, quello del 25 aprile, che fra enunciazione e smentite rivela chiaramente l’ambiguità del termine “laicità” in Turchia, formalmente «Stato di diritto, democratico, laico e sociale», come si legge nell’articolo 2 della Costituzione del 1982. In parte ispirato al modello francese dopo la caduta dell’impero ottomano, il modello di laicità in salsa turca in realtà è agli antipodi della separazione fra chiesa e Stato, perché l’islam sunnita, corrente religiosa dominante nel paese, è interamente controllata dallo Stato attraverso il Diyanet, la Presidenza per gli Affari Religiosi, facente capo all’Ufficio del primo ministro e istituita dalla Costituzione della Repubblica turca, nel 1924. L’istituzione oggi impiega al suo interno ben 150mila funzionari, e tra le altre cose assegna gli imam alle moschee e redige i sermoni del venerdì: in una parola controlla la vita religiosa della Turchia. Nonostante venga finanziato dalle tasse di tutti i cittadini, il Diyanet si occupa soltanto dell’islam sunnita, discriminando le altre religioni ufficiali, come i cristiani (che rappresentano l’1% della popolazione, 80mila fedeli in tutto, rispetto al 20% di inizio ‘900) o gli ebrei, per non parlare di quelle non autorizzate, come le minoranze musulmane degli aleviti e dei sciiti, o gli atei.

I poteri del Diyanet sono cresciuti molto negli ultimi anni e non pochi lo ritengono uno strumento nelle mani dell’Akp, un’arma fondamentale per il rafforzamento dell’influenza del presidente Erdogan. Se lo Stato turco, al momento della sua fondazione, si era servito del concetto di laicità per secolarizzare la società, oggi la situazione è rovesciata: il partito di governo cerca di introdurre l’islam sunnita nella Costituzione per islamizzare il paese. Una questione delicata che interessa anche l’Europa, tanto più se si pensa processo di avvicinamento della Turchia all’Unione, che negli anni ha sollevato più di una riserva ma che ha ricevuto una nuova spinta con l’accordo per la gestione dei migranti firmato a marzo.

Foto: via flickr.com

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