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Il dramma delle donne invisibili in Medio Oriente

Il caso della domestica dello Sri Lanka condannata a morte per adulterio in Arabia Saudita riaccende i riflettori su un tema troppe volte dimenticato

La buona, parziale, notizia della sospensione della condanna a morte per lapidazione in Arabia Saudita di una giovane lavoratrice nativa dello Sri Lanka, ha portato in realtà per l'ennesima volta alla ribalta della distratta comunità mondiale il dramma delle donne africane ed asiatiche vendute ai ricchi possidenti delle nazioni della penisola arabica. Costrette a subire ogni sorta di violenza, fisica e psicologica, fra orari di lavoro massacranti e vere e proprie segregazioni fra le mura domestiche, senza riposi, senza possibilità di comunicare con l'esterno o con i propri cari. Un moderno schiavismo, perpetrato fra case dorate, cattedrali nel deserto di paesi che sono partner commerciali forti dell'Italia e di tutti gli altri soggetti del cosiddetto Occidente, in quanto detentori dell'oro nero, il petrolio che tutto muove e a cui tutto è concesso.

La ragazza si sarebbe resa colpevole di adulterio, reato per cui in Arabia Saudita è prevista l'esecuzione capitale: soltanto per le donne ovviamente, mentre l'amante dovrebbe ricevere cento frustate. La sospensione, inattesa e non certo consueta, è frutto del grande pressing diplomatico delle autorità politiche, religiose e civili cingalesi, segno che quando si alza il tappeto e si mostra al mondo la polvere che di solito sotto si nasconde, qualche risultato si ottiene sempre.

Ma troppi fingono di non capire, di non vedere il traffico di disperate che dal corno d'Africa e dalle aree più disagiate dell'Asia finiscono nelle mani di mercenari che le vendono come merci ai possidenti in Libano, Giordania, Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi, Barhein, Qatar. Centinaia di migliaia di giovani in fuga da carestie e guerre, che finiscono per vivere la propria guerra personale fra quattro mura che diventano prigione medioevale.

Nel 2010 fece scalpore la notizia della donna di 49 anni, anch'essa originaria dello Sri Lanka, costretta a rientrare nel proprio paese per le sue condizioni precarie. Fu lì che i medici le rimossero dal corpo almeno 24 fra chiodi e aghi che il padrone le aveva conficcato nel tempo, come punizione per le sue lamentele e presunte lacune, mentre sarebbero decine le ragazze giustiziate negli ultimi anni; donne costrette nella maggior parte dei casi ad agire per autodifesa a fronte di ogni sorta di abuso subito.

Qualche caso riesce talvolta a superare la fitta cortina calata su questi temi: la comunità internazionale si indigna, minaccia sanzioni, poi passato il clamore torna a far finta di nulla, lasciando sole le organizzazioni che da anni si battono per fermare un tale scempio.

I passaporti sono sequestrati almeno fino al termine del contratto di lavoro, e poi o restituiti o ceduti ad eventuali nuovi padroni, pronti a rilevare i servizi della schiava, per cui fuggire non è semplice.

Intanto flussi di disperate continuano a riversarsi nell'area, in fuga oggi dalla Siria come ieri lo erano da altri teatri di guerra. Il continuo mercato porta ad un costante calo delle paghe orarie, perché si trova sempre qualcuno che pur di lavorare accetta compensi ridicoli, aggravando una spirale silenziosa ma terribilmente mortifera. Intere generazioni di donne etiopi, cingalesi, filippine, stanno spendendo i propri anni migliori in carceri che non hanno sbarre alle finestre, ma da cui non si riesce a fuggire.

Foto Stefano Stranges

 

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