Pakistan: cristiani perseguitati, fuggire o restare?
13 ottobre 2015
A causa delle pesanti discriminazioni religiose sono oltre 30 mila le persone che hanno lasciato il Paese negli ultimi due anni
«Ho fatto tutto il possibile per aiutare mio fratello Sajjad, imprigionato per essere caduto nella rete della legge anti blasfemia» sospira Sarfraz Masih, cristiano del Pakistan, della provincia del Panjab. Nel luglio del 2013 suo fratello è stato condannato a morte per l’invio di un messaggio considerato blasfemo a degli Imam, i responsabili di culto musulmani, accusa che l’uomo ha sempre rigettato con tutte le proprie forze.
«Tutti i miei sforzi per dimostrare la sua innocenza sono stati inutili, e anzi sono diventato io stesso un bersaglio per gli estremisti proprio per questa mia tenace azione: ho ricevuto minacce di morte, e dal momento che nessun segnale arriva dai giudici né tantomeno dalla politica, io e la mia famiglia siamo costretti ad andarcene in Sri Lanka perché non ci sono più le condizioni di sicurezza per rimanere».
Una storia come tante nel Pakistan di oggi. Secondo il pastore Rafaqat Sadiq della Chiesa presbiteriana unita a Karachi «la maggioranza dei cristiani abitanti nei distretti di Dastagir, Essa Nagri, Azam Basti e Mahmoodabad – compresi diversi responsabili di culto – ha lasciato il Paese fuggendo in Thailandia, costretta anche qui a vivere in condizioni miserabili in quanto stranieri senza permesso di lavoro né speranza di ottenere lo status di rifugiati, tanto che diverse ragazze sono state costrette a prostituirsi per raggranellare i soldi per il cibo».
Il doppio attentato alle chiese cristiane di Lahore a inizio 2015 ha reso ancora più pesante la situazione, divenuta incandescente dopo la morte nel marzo scorso di due giovani musulmani linciati e bruciati vivi dalla comunità cristiana, perché considerati fra gli organizzatori degli attacchi. Nonostante le ferme condanne di ogni vendetta annunciate dai leader cristiani, tali scontri non hanno fatto altro che rendere insostenibile una situazione già al limite della sopportazione. Tanto che è stato sostanzialmente avviato un boicottaggio in chiave anti cristiana ad ogni livello della società pakistana, dai negozi che rifiutano di vender loro cibo agli uffici pubblici che intralciano ogni loro richiesta. Ma come abbiamo visto per il caos della Thailandia, in cui un migrante deve attendere anni per un possibile riconoscimento quale rifugiato, la fuga all’estero spesso non è la soluzione di alcun male, fra ostacoli finanziari e burocratici difficilmente sormontabili.
Nadeem John, 38 anni, è fuggito da Karachi con sua moglie e i due figli per arrivare in Thailandia nel marzo del 2014. Da allora è senza lavoro e i pochi soldi portati dalla patria sono esauriti. La sua audizione presso l’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i rifugiati che dovrà decidere se assegnare a lui e a ai suoi cari lo status di rifugiato è fissata per il 2019. Troppo tempo, troppi anni di dolore e incertezza, tant’è che la famiglia ha deciso di ritornare in Pakistan, dove per lo meno vi sono gli affetti più prossimi.
Condizioni da diaspora permanente, rigettati ovunque solo per la propria fede. Storie singole che messe una in fila all’altra creano ormai una catena lunga quanto il nostro pianeta.