Non è la religione
12 ottobre 2015
La situazione nella Repubblica Centrafricana è di nuovo critica, dopo gli scontri di fine settembre. Medici senza frontiere è stato in prima linea durante la guerra civile. L’intervista a Elisabetta Castagna, medico di Msf
L’agguato in un quartiere musulmano di Bangui a fine settembre e la morte di un giovane conducente di mototaxi hanno fatto di nuovo esplodere le violenze nella Repubblica Centrafricana, sempre al centro di tensioni fra milizie armate dopo la guerra civile del 2013. E’ stato l’episodio più grave degli ultimi mesi, che ha visto 21 morti e un centinaio di feriti: segnale allarmante, soprattutto a ridosso delle annunciate elezioni presidenziali, che si sarebbero dovute tenere entro la fine dell’anno. Un bilancio drammatico, che va ad aggravare la situazione di un Paese che non soltanto è fra i più poveri del mondo, ma è anche oggetto di traffici illegali, tra armi e diamanti, causa ed effetto dei continui colpi di stato. Ne abbiamo parlato con Elisabetta Castagna, medico operatore di Medici Senza Frontiere, che ha lavorato alcuni mesi nella capitale durante l’emergenza di fine 2013.
Medici senza frontiere da quanto opera nel Paese?
«Msf era già presente nella Repubblica Centrafricana, un paese ricco di risorse naturali, prima fra tutte i diamanti, ma con un sistema sanitario al collasso portato dall’instabilità cronica del Paese. Soprattutto in provincia non esistono ospedali e diverse sezioni francesi e olandesi di Msf cercavano di intervenire con progetti di chirurgia e supporto alla maternità. Quando il presidente Bozizé è stato cacciato da un colpo di stato dei ribelli Seleka a marzo 2013, verosimilmente supportato dal Ciad, ha preso il potere Michel Djotodia, musulmano. La nostra missione è arrivata a Bangui a fine dicembre in seguito alla guerra civile, iniziata con il rovesciamento di Djotodia dagli oppositori dei Seleka, le milizie anti Balaka».
Si tratta di un conflitto religioso che oppone cristiani a musulmani?
«In Centrafrica la maggioranza cristiana raggiunge l’80% ma le religioni hanno sempre convissuto; il peso veniva piuttosto dato all'etnia ma non all’appartenenza confessionale, nemmeno sotto il governo di Bozizé. Basta dire che anche fra i Seleka, che hanno sostenuto il presidente musulmano, c’erano molti cristiani. Il fatto è che per fomentare le masse si è fatto leva sulla religione e purtroppo questa manipolazione politica ha avuto presa sulla popolazione: all’inizio di dicembre, gli anti-Balaka hanno cominciato a sostenere che le Seleka e il loro presidente non erano centrafricani e che volevano riprendersi il Paese. Hanno utilizzato il fattore religioso: musulmano uguale straniero, cristiano uguale centrafricano; una miscela esplosiva che sta continuando a fare vittime, come si è visto negli scontri di fine settembre».
L’Occidente come ha supportato la crisi?
«I francesi, che storicamente hanno una forte influenza nel Paese, sono intervenuti il 5 dicembre 2013 con l’operazione Sangaris. Si trattava di un intervento militare, a cui si è affiancata la missione di pace Onu Minusca nell’aprile successivo. Bisogna dire però che i militari della Sangaris erano quasi tutti giovanissimi alla prima uscita, cosa che non ha aiutato in una crisi pesante come quella centrafricana».
Ora c’è una presidente di transizione, Catherine Samba-Panza. Le nuove elezioni erano previste fra ottobre e novembre ma è difficile immaginare che tutto si svolga regolarmente.
«Era chiaro a tutti che non sarebbero mai avvenute e questi ultimi disordini sono probabilmente finalizzati proprio a non farle svolgere. In ogni caso nessuno ha la tessera elettorale, né si sono visti seggi aperti: nessuno si è mosso per rendere possibili le elezioni, né si è visto un supporto in questo senso dalla comunità occidentale. Senza contare che tutta la popolazione musulmana, 500mila persone, è scappata nei paesi vicini per la guerra, e anche molti cristiani se ne sono andati per il collasso economico completo».
L’ultimo episodio di violenza quindi è una manovra politica?
«In Centrafrica il fulcro della guerra è Bangui, non come in Congo dove Kinshasa non è stata toccata o la Nigeria; qui è stato toccato il cuore, quindi viene da pensare che sia conseguenza di interessi economici e politici. Negli anti-Balaka ci sono delle divisioni, forse alle spalle c’è un tentativo di colpo di stato di Bozizé, proprio perché in ballo c’è il nuovo governo. E la religione di nuovo non c’entra».
Che situazione ha trovato quando è arrivata a Bangui durante la guerra civile?
«C’era un collasso totale degli ospedali, che avevano chiuso, si sparava nella capitale e ci siamo trovati di fronte alle tipiche problematiche legate alla guerra, aggravate dalle condizioni preesistenti di un Paese che non ha strutture pubbliche funzionanti. Trattavamo dai feriti ai malati cronici di tubercolosi e hiv. Msf è intervenuta con tutte le sezioni, sia nelle enclave musulmane sia in quelle cristiane. In città si sono formati campi profughi, il più grande era quello dell’aeroporto, che ospitava anche centomila persone. Le condizioni igieniche erano terribili. Inoltre l’Unhcr non ha preso subito in gestione il campo e noi abbiamo anche dovuto occuparci della logistica, organizzando i vari settori. Msf ha denunciato la mancata gestione delle Nazioni Unite, anche per quanto riguarda la distribuzione del cibo: dicevano che gli accampati sarebbero tornati presto a casa e invece ci sono voluti dei mesi prima che avvenisse. Il problema per noi medici è che curi le persone e poi le mandi fuori dall’ospedale, dove non sono protette, con il rischio che ritornino subito con ferite ancora più gravi. Nella guerra civile ho visto un livello di tortura altissimo, con violenze terribili su donne e bambini a cui è difficile essere preparati; non a caso noi medici avevamo uno psicologo che ci seguiva».
Lei opera sovente in situazioni estreme e anche durante conflitti a fuoco. Non ha paura?
«All'inizio hai paura però mpm hai tempo per pensarci perché devi lavorare e occuparti di chi ha bisogno di te, e lo fai cercando di mettere in sicurezza le persone e te stessa; poi col tempo ti abitui. Molti mi chiedono come faccio quando opero in zone colpite da ebola, ma quella non è la situazione peggiore, perché con l’ebola puoi prendere precauzioni ma dalle pallottole vaganti non hai modo di proteggerti se non sdraiarti per terra. Per fortuna nel mio team c’era tutta gente con enorme esperienza che mi ha dato molto sostegno».
Dopo gli ultimi attacchi si sono di nuovo formati i campi a Bangui?
«I campi sono di nuovo riempiti. Perché uomini mandano donne e bambini fuori casa, appena sentono il pericolo. Ora si sono di nuovo svuotati e per fortuna la situazione non è degenerata in crisi come nel 2013 ma si continua a vivere in allerta. Le milizie Seleka sono ancora al nord del paese e c’è chi dice che si stanno riorganizzando per marciare di nuovo su Bangui».