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Amare la vita fino alla fine

Un incontro con il pioniere delle cure palliative in Svizzera, Roland Kunz. Da trent'anni il dottor Roland Kunz, pioniere delle cure palliative in Svizzera, accompagna malati gravi e in fin di vita

Fonte Reformiert intervista a cura di Christa Amstutz e Sandra Hohendahl; trad. it. G. M. Schmitt; adat. L. Nitti

Lei è confrontato quotidianamente con la sofferenza e con la morte. Come gestisce questo rapporto?

«Confrontandomi quotidianamente con la mia propria finitezza. Vivo con immensa gratitudine e so che niente è scontato. A volte semplicemente sto vicino e osservo. Sono grato di non essere io il paziente, ma sono consapevole che potrei diventarlo in qualsiasi momento. Dalle situazioni difficili traggo sempre anche qualcosa di positivo».

E la sua équipe? Che cosa fate concretamente per non essere sopraffatti dalla situazione?

«Le persone che lavorano con me sono mature e parlano apertamente di ciò che sentono e dei loro limiti. Una volta al mese abbiamo una supervisione. A me personalmente aiuta anche il lungo tragitto che devo percorrere per venire al lavoro, in bicicletta e in treno. Il contatto con la natura, l'ascolto della musica - hard rock o classica, a seconda dell'umore -, sono filtri importanti».

Lei è un pioniere della medicina palliativa, impegnato in questo ambito da una trentina d'anni. Come ci è arrivato?

«Ho fatto due esperienze chiave. Al termine dei miei studi di medicina mio padre venne operato per un tumore intestinale. Scosso, osservai come veniva gestita la sua malattia. Noi congiunti non venivamo coinvolti, la sofferenza di mio padre veniva minimizzata. Il suo medico di famiglia gli prescrisse un tè e una comune pastiglia antidolorifica in caso di bisogno. La seconda esperienza la feci all'ospedale di Winterthur, dove io stesso ho lavorato per un certo tempo occupandomi di persone anziane. Tornato in ospedale acuto, dove l'età media non era molto più bassa, ho visto situazioni ben diverse. Gli organi dei pazienti erano controllati in permanenza, ma nessuno aveva tempo di occuparsi della persona nella sua interezza».

Poi che cosa accadde?

«Mi specializzai in medicina geriatrica. Creai a Oberwinterthur un centro di cure per pazienti affetti da demenza. Partecipai a congressi all'estero, perfezionai la mia formazione mediante scambi con colleghe e colleghi. All'inizio degli anni Novanta ho organizzato il primo congresso nella Svizzera tedesca sul tema delle cure palliative».

L'anno scorso lei ha contribuito a realizzare, nel canton Zurigo, il “Pallifon”, un sistema di comunicazione tra i famigliari dei pazienti e il medico. Perché si rende necessaria questa offerta?

«Un obiettivo della medicina palliativa è di permettere ai malati terminali, se lo desiderano, di poter tornare a casa propria. Ma che succede se nel corso della notte insorgono complicazioni, come per esempio una crisi respiratoria acuta? Oggi il medico di famiglia non è più a disposizione giorno e notte. Grazie al Pallifon, pazienti e congiunti possono parlare in ogni momento con uno specialista. Ciò permette di sdrammatizzare alcune situazioni e di evitare che i pazienti vengano riportati in ospedale a sirene spiegate».

Tutte queste offerte di cure palliative non sono molto costose?

«La medicina palliativa non è una medicina a buon mercato, necessita di un elevato impiego di tempo e di personale. Se però si considera che grazie ad essa si possono evitare ulteriori, costosi trattamenti - magari l'ennesima, disperata chemioterapia -, ecco che può rilevarsi relativamente conveniente».

La medicina di punta si è spinta troppo in là? Lei ha accennato alle chemioterapie in assenza di prospettiva di successo...

«Se usata bene, la medicina di punta è una benedizione. Un problema sono le false ambizioni dei medici e le attese irrealistiche dei pazienti. Vengono propagandate procedure mediche sempre più azzardate, le persone credono che per guarire basti recarsi dal medico giusto. Siamo sempre meno inclini ad accettare i limiti naturali».

Perché ai medici riesce difficile parlare della morte?

«Chi studia medicina vuole prima di tutto combattere la malattia e la morte. Molti medici hanno essi stessi paura della morte e di conseguenza hanno paura di parlarne. Quando dopo cure mediche a volte senza senso i pazienti giungono nel nostro reparto, sono spesso contenti: ritrovano una certa quiete e sanno finalmente il motivo del loro ricovero in quel reparto».

Lei non ha paura della morte?

«Se me lo chiede adesso, la mia risposta è no. Ma come risponderò quando ci arriverò, non posso saperlo. Certo, ho vissuto tante cose, ho fatto tante esperienze che mi hanno arricchito e saziato. Credo che questo mi sarà d'aiuto quando dovrò andarmene. Come si muore non dipende soltanto dall'età, ma anche dalla soddisfazione avuta dalla vita. Chi crede di essere stato gabbato dalla vita ha difficoltà a lasciarla».

Confida che al termine della vita non dovrà soffrire?

«Se sarò assistito bene o meno, dipende anche dalle mie decisioni. Questa è una componente importante delle cure palliative. Prima era il medico a decidere secondo quella che presumeva essere la volontà del paziente, quando questi non era più in grado di farlo. Con il nuovo diritto degli adulti le cose sono cambiate. In assenza di disposizioni da parte del paziente, spetta ai congiunti decidere se debba essere avviata una nuova terapia oppure no. È un grosso peso, che a volte porta anche a inutili misure per tenere in vita artificialmente la persona perché i congiunti semplicemente non sono in grado di prendere una decisione. Cerco di consigliare nel modo migliore possibile le persone coinvolte e azzardo anche valutazioni personali come: “Se la paziente fosse mia madre...”».

Una disposizione da parte del paziente risolve tutto? Dopotutto si può anche cambiare idea...

«È vero. È particolarmente difficile nel caso di pazienti affetti da demenza. A molti che si trovano in questa condizione sembra di star bene perché dimenticano tutto ciò che è negativo. Bisogna rinunciare a curare una di queste persone perché una volta ha espresso tale desiderio? Una disposizione ben fatta dovrebbe prima di tutto dare espressione ai valori dei pazienti. Il mio consiglio è di non compilare formulari di venti pagine e prendere invece un foglio bianco e scrivervi sopra quali sono i valori che si considerano più importanti nella vita e quali situazioni hanno causato maggiore pena e sofferenza».

Crede in Dio?

«Sì. Sono un credente che nella vita si sforza di adempiere un compito che abbia un senso. Mi considero al servizio di un potere superiore che chiamo Dio. È anche uno sgravio. Ogni giorno devo prendere decisioni difficili. La fede aiuta a condividere le responsabilità. Non ho idea di che cosa ci sia dopo la morte. Credo però che tutto continui, in una dimensione che non possiamo assolutamente immaginare».

Se la prende qualche volta con Dio, di fronte al dolore che incontra?

«Naturalmente mi chiedo il perché di alcune cose. Di recente è morta da noi una paziente di 34 anni, madre di un bimbo di sei anni. Aveva un cancro che si è diffuso in modo dirompente. Che ciò non sia giusto è un pensiero che si fa certamente strada...».

Spesso non è possibile parlare ai morenti per giorni. Lei sa che cosa accade in questo arco di tempo?

«Non abbiamo alcuna certezza, ma un'idea ce la facciamo. Ci sono morenti in coma che tornano indietro e ciò che riportano è positivo: belle sensazioni, bei suoni, belle immagini. Tutti raccontano di qualcosa di chiaro e accogliente».

Si sente a volte parlare di agonie terribili, che suscitano nei congiunti impressioni che possono perseguitarli per tutta la vita...

«Sì, ci sono persone che fino all'ultimo respiro si oppongono alla morte. Ma c'è anche il cosiddetto delirio. Non tutti gli organi smettono di funzionare contemporaneamente. Spesso reni e fegato danno forfait giorni prima della morte. In questo modo si accumulano sostanze tossiche che possono provocare gravi allucinazioni. Gli stessi medicinali che si prescrivono per le psicosi possono in questo stadio contribuire a evitare sofferenze inutili. Sono del parere che debbano essere utilizzati, anche in considerazione dei congiunti».

Lei si dice scettico nei confronti delle organizzazioni di aiuto alla morte...

«Non sono scettico nei confronti del desiderio di morire di un paziente, ne ho comprensione. Le organizzazioni di aiuto alla morte sono una realtà sociale, basta considerare il numero dei loro membri. Chiedo però che ogni persona riceva un'esauriente consulenza palliativa prima di rinunciare prematuramente alla vita. Nell'ambito dell'eutanasia si cita spesso l'autodeterminazione. Ma io posso scegliere liberamente soltanto se ho delle alternative. Ho conosciuto per esempio un paziente che aveva già fissato un appuntamento con Exit. Era diabetico e nonostante il desiderio di morire continuava a iniettarsi insulina quattro volte al giorno. Gli dissi che poteva anche semplicemente rinunciarvi. Una mattina non volle più l'insulina, andò al bar e mangiò sfoglie alla crema a volontà. Poco tempo dopo morì serenamente».

Prescriverebbe un farmaco letale su insistenza di un paziente?

«Finora non l'ho mai fatto. Ci sono però situazioni in cui sarei disposto a farlo. Per esempio nel caso di un tumore che divora gradualmente il volto mentre gli organi vitali continuano a funzionare».

Reputa importante la cura pastorale alla fine della vita?

«Nella nostra équipe entrambi gli assistenti spirituali sono validi collaboratori. Anche in questo caso, però, dipende molto dalla persona. Ci sono assistenti spirituali che non si limitano al loro ruolo religioso e preferiscono un approccio meno vincolato. Anche tra i pastori ci sono molti che hanno paura della morte e non ne parlano volentieri, mentre è proprio questo il punto principale e lo dimostra l'esempio di una paziente che all'inizio di una lunga conversazione mi ha salutato chiamandomi “signor dottore” e alla fine ha detto “addio, signor pastore”».

Images ©iStockphoto.com/Melpomenem

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