Senza obbligo di velo
27 febbraio 2015
Indossato per questioni di onore e di pudore in Egitto, il velo non è stato rimesso in discussione dalle prime femministe egiziane. Un intervento di Sylvia Naef a Ginevra
«Nelle società europee il velo islamico è diventato il simbolo dell’oppressione religiosa della donna. Del resto, esso suscita dibattito anche nelle società musulmane. È una questione antica», dice Sylvia Naef, docente di arabo alla facoltà di lettere dell’Università di Ginevra, durante una conferenza su «il femminismo nascente e la questione del velo nel mondo arabo all’inizio del XX secolo», all’Uni Mail, a Ginevra. Questo corso pubblico organizzato da tre facoltà, intitolato «Genere e tradizioni religiose» è iniziato lunedì 23 febbraio a Ginevra. Nove corsi si succederanno ogni lunedì fino al 18 maggio, e interrogheranno tutti sul «luogo comune di una correlazione semplice tra tradizioni religiose e dominio maschile» dal punto di vista di differenti discipline accademiche.
Il velo in Egitto all’inizio del XX secolo. Il primo testo conosciuto riguardante il porto del velo per il viso – l’unico di cui si tratta in questa conferenza, che non bisogna confondere con il suo omologo per i capelli, sottolinea la conferenziere – risale all’epoca assiro-babilonese e vieta alle donne non libere di indossarlo. Molto presto, esso diventa così «un segno di distinzione di classe. Nelle classi popolari, le donne non si coprivano il viso». Sylvia Naef è chiara: «il velo per il viso non è un obbligo islamico o coranico. Ma per la maggior parte delle persone, questa pratica resta legata all’islam». E prosegue: «Esso protegge l’onore della donna ed è attraverso l’onore delle donne che passa l’onore di tutta la famiglia. Il problema della molestia nei confronti delle donne nelle strade resta ancora attuale, in Egitto. All’inizio del XX secolo, uscire senza velo era considerato impudico. L’educazione svolge un grande ruolo. È come se ci chiedessero di venire a lezione con i seni nudi. Ogni società ha i propri valori e le proprie nozioni di pudore. Fra le pioniere del femminismo, non c’erano obiezioni a che le ragazze non si velassero, esse però non volevano uscire con il viso scoperto».
La vera battaglia non è sul velo ma sull’educazione e le condizioni di vita. È attraverso le vedute di tre fra le prime femministe del Paese che la docente disegna il quadro della condizione delle donne in Egitto all’inizio del secolo scorso. Nel ricordare intanto che «l’uguaglianza dei sessi non andava da sé neppure in Occidente», ha fatto notare che le donne in Egitto avevano dei diritti che le loro omologhe occidentali non avevano ancora. Infatti, «la legge islamica dà alle persone di sesso femminile il diritto di gestire il loro denaro e i beni immobiliari, dice la docente. D’altronde, queste ultime hanno creato tra il 25% e il 40% delle fondazioni pie, delle scuole, degli ospedali e delle fontane pubbliche. Poche però possedevano abbastanza beni per essere totalmente indipendenti rispetto alla propria parentela maschia».
La docente di arabo ricorda inoltre che per Qasim Al-Amin, uomo politico e pensatore egiziano del XIX secolo, l’ignoranza della parte femminile non era dovuta all’islam ma a «cattive abitudini provenienti da fuori, esterne alla religione». Per lui come per le tre pioniere egiziane all’inizio dello scorso secolo, solo l’istruzione poteva migliorare la posizione delle donne nella società. «Non perché faccessero brillanti carriere» spiega Sylvia Naef «ma perché potessero educare meglio i propri figli e curarli. L’importante era di permettere loro migliori condizioni di vita nel matrimonio, di lottare contro la poligamia e sopratutto contro il ripudio, contro lo sconfinamento e i matrimoni combinati. Esse dovevano inoltre imparare a guadagnarsi la vita per non trovarsi in situazioni difficili in caso di divorzio».
La liberazione della donna: un’idea moderna, come il niqab. «Il nasserismo incoraggiò la liberazione delle donne incitandole a intraprendere studi universitari. Attualmente, le egiziane nelle università sono più numerose delle svizzere», fa notare Sylvia Naef. «In Iraq e in Siria, è la stessa cosa, continua. È un femminismo di Stato. Va notato che il ritorno del velo non ha fatto uscire le donne dalle università».
In conclusione, la docente spiega che il niqab è una creazione moderna, e che anche se «considerato da alcuni come un obbligo coranico, esso è solo una reinterpretazione di alcuni versetti del Corano sul modo in cui una donna deve farsi vedere in pubblico. La cosa è molto complessa».
Il programma completo del corso pubblico «Genere e tradizioni religiose» è disponibile sul sito dell’università di Ginevra (www.unige.ch). Questo ciclo di conferenze è il frutto della collaborazione di tre facoltà dell’Università di Ginevra: la Facoltà autonoma di teologia protestante, la Facoltà di lettere e la Facoltà delle scienze della società.
Fonte: Protestinfo
(Traduzione dal francese di Jean-Jacques Peyronel)