L’accordo di Ginevra sulla Libia, un timido segnale di diplomazia
20 gennaio 2015
Il cessate il fuoco e l’agenda per la creazione di un governo di unità nazionale non bastano: ecco perché le azioni diplomatiche delle Nazioni Unite devono continuare, includendo tutte le parti in causa e portando l’Occidente ad assumersi le proprie responsabilità
Domenica l’8 gennaio l’esercito libico ha annunciato un “cessate il fuoco”, frutto degli accordi tra le parti intervenute ai colloqui di pace di Ginevra promossi dalle Nazioni Unite.
Si tratta della prima intesa diplomatica da quando, il 24 giugno 2014, le milizie Fajr Libia di Misurata, la città portuale a 200 km a est della capitale Tripoli, avevano dato il via all’Operazione Alba e avevano occupato la capitale e le sedi governative. I miliziani, che si oppongono al governo riconosciuto a livello internazionale, avevano già annunciato venerdì una tregua unilaterale, mentre l’esercito ha specificato che il “cessate il fuoco” non riguarderà le operazioni contro i gruppi jihadisti che operano nell’est e nel sud del paese.
La conferenza, fortemente voluta dalla diplomazia italiana, è stata quindi un successo? Non proprio. Secondo Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi, Istituto di studi politici internazionali, «i successi si ottengono solo con la chiusura delle vicende», mentre in questo caso «siamo ancora in una fase iniziale».
Quanto annunciato nel fine settimana rappresenta un risultato poco più che embrionale rispetto alle urgenze del conflitto libico: nell’ordine, infatti, si sono ottenuti soltanto un’agenda senza scadenze per la costituzione in futuro di un governo di unità nazionale e un accordo sul cessate il fuoco. Il tutto, però, in assenza di membri del parlamento uscente, il Congresso generale nazionale con sede a Tripoli e vicino alle posizioni di Fajr Libia, e delle stesse milizie che compongono la coalizione partita da Misurata. «Non ci sono tutte le forze rappresentative del paese – spiega Varvelli – […] perché naturalmente le fazioni sono numerose, non sono solamente due, come invece descritto dalla stampa anche per semplificare e far comprendere meglio. […] Non ci potranno mai essere le fazioni jihadiste, che apertamente dichiarano di non voler partecipare e di mettersi fuori da un contenzioso in ambito civile e democratico, e questo costituisce un limite, e non ci sono esponenti di molte minoranze, come touareg o berberi, che comunque hanno un ruolo importante».
Colloqui di pace parziali, risultati modesti e un generale disinteresse da parte della comunità internazionale sono elementi che non lasciano ben sperare per il futuro del paese, che secondo numerosi osservatori corre il serio rischio, a quattro anni di distanza dalla deposizione di Muhammar Gheddafi, di diventare una “nuova Somalia”, l’esempio più chiaro di “stato fallito” in epoca moderna.
Ma il problema, probabilmente, non va tanto cercato negli ultimi 12 mesi, quanto nelle azioni che hanno preceduto e immediatamente seguito l’intervento militare occidentale nel paese. «Quando abbiamo rovesciato un regime come quello di Gheddafi – racconta ancora Varvelli – basato essenzialmente se non unicamente sulla propria figura di leader e nel quale volutamente non si erano volute creare e formare istituzioni moderne, abbiamo creato uno status di caos completo, che si sta protraendo nel tempo. Aggiungiamo poi che il conflitto civile – che non si è chiuso con la fine di Gheddafi – preesisteva alla caduta del regime. Per certi versi ci sono anche alcune ragioni: chi ha condotto una rivoluzione pensava di farlo in nome di un radicale cambiamento, e non per ritrovarsi al governo con ex rappresentanti del regime del passato. Allo stesso tempo chi invece è stato con Gheddafi, ma si era discostato ed era un riformista, non può tollerare in qualche misura di essere al governo con qualcuno che reputa illegittimo perché troppo vicino a istanze islamiche radicali».
Questa lettura va integrata con una considerazione sulle responsabilità occidentali, che pesano «in modo totale» nell’ulteriore destabilizzazione del paese negli ultimi anni: all’intervento francese è seguito quello statunitense, con il supporto di Italia e Regno Unito, ma non appena terminate le missioni militari si è creato un vuoto, sfruttato dalle potenze regionali.
Arabia Saudita, Emirati arabi uniti, Qatar, Egitto e Turchia, ognuno con una propria influenza e con lo scopo dichiarato di stabilizzare il paese, hanno occupato gli spazi diplomatici, politici e militari abbandonati dall’Occidente cercando di imporre la propria visione e le proprie forze sul territorio, relegando sempre più in un angolo i paesi occidentali, che si sono in qualche modo astenuti dal far valere la propria posizione, le proprie prerogative e le proprie responsabilità.
Eppure la Libia, così lontana dalle cronache italiane e dai sentimenti dell’opinione pubblica europea, non dovrebbe essere così sottovalutata per almeno tre ordini di problemi: il terrorismo e le infiltrazioni jihadiste, al centro dell’attenzione dopo i fatti di Parigi, l’immigrazione e le questioni umanitarie, «sulle quali – dice Varvelli – non bisogna rilassarsi perché continueranno ad esistere», e infine le questioni energetiche.
Se l’Europa non saprà farsi carico delle proprie azioni passate, non saprà neppure modificare quelle del presente, minacciando quindi in modo diretto anche il proprio futuro.