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Il caso Panetti riapre la discussione sulla pena di morte

Massimo Corti presidente dell’Acat: «da cristiani la lotta contro la tortura e la pena di morte ha un valore in più»

Scott Panetti ha una disabilità mentale da quando aveva vent’anni, e nel 1992 ha ucciso due persone. Da allora è incarcerato in Texas e attende la pena capitale per iniezione letale. Venerdì scorso l’Onu ha approvato una nuova moratoria delle esecuzioni, e pochi giorni fa ha fatto un appello allo Stato per fermare l’esecuzione poiché per una persona con disturbi mentali così forti sarebbe un’azione considerata “arbitraria”. L’Acat, Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura, fa parte della Coalizione mondiale contro la pena di morte, ed è impegnata in prima linea nella sensibilizzazione su questo tema: abbiamo intervistato il presidente Massimo Corti.

 

Perché l’attenzione è maggiore sul caso Panetti, rispetto ad altri?

«Questo caso ha fatto scalpore perché da tanto tempo molte associazioni che lottano contro la pena capitale, oltre alla Coalizione mondiale contro la pena di morte, hanno attirato l’attenzione su questo problema. C’è anche una sentenza della Corte Federale americana, del 2007, che dice che non è possibile mettere a morte persone con disabilità mentali, perché la pena sarebbe sproporzionata alla responsabilità del singolo. Resta però la possibilità di condannare anche queste persone, se capiscono il perché della loro pena. Ma Scott Panetti sicuramente non capisce, sostiene che sia una congiura del diavolo contro Dio, era già stato ricoverato molte volte anche prima dell’omicidio che giustamente gli viene contestato».

Anche il carcere per una persona come Panetti è un problema?

«La situazione è ancora peggio, se vogliamo. Ci sono molte persone che impazziscono durante la permanenza in carcere, nei corridoi della morte. Pensiamo al Giappone, dove il condannato a morte sta per anni completamente isolato, senza vedere nessuno, in condizioni che l’etica giapponese reputa di dignità, ovvero seduto, e non sdraiato. Una sorta di tortura decennale. La morte sembra quasi una liberazione». 

A che livello è la battaglia contro la tortura e la pena di morte nel mondo?

«La tortura, chiamiamola così, è prevista in alcuni stati arabi, genericamente parlando, dove abbiamo pene come il taglio della mano o la lapidazione. La pena di morte è ancora presente negli Usa, in cinque Stati africani, in sette Stati della Lega araba. Dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite, 173 hanno abbandonato la pena di morte. La cosa che fa effetto, però, è notare le percentuali: la maggior parte delle condanne a morte sono eseguite in Cina, anche se sono stime, perché le condanne sono segrete; seguono gli Stati Uniti, l’Iran, l’Iraq e poi gli altri a scendere. Il Texas, però, ha il record mondiale di condanne a morte di persone con problemi psichici».

Quale tipo di pressione viene fatta a livello internazionale contro queste condanne?

«La Coalizione mondiale contro la pena di morte fa ogni anno una campagna molto forte di sensibilizzazione: “Curateli non ammazzateli” è il nome della campagna di quest’anno, che riguarda proprio i malati psichici condannati a morte. La pressione viene fatta a tutti i livelli, soprattutto sulla politica internazionale, dall’Onu in giù. In Italia stiamo facendo una campagna di educazione per i giovani: certe cose vanno capite fin da subito. Le persone pensano che la pena di morte sia un deterrente contro i crimini, anche se gli studi ci dicono l’opposto, dunque è importante informare ed educare a partire dall’età dell’istruzione. La formazione di un’opinione pubblica contraria alla pena di morte può essere un passo importante per cambiare le cose. Come Acat, infatti, il 10 dicembre assegneremo premi di laurea per tesi che trattino di tematiche contro la tortura e la pena di morte. Un progetto che portiamo avanti da qualche anno, finanziato dall’Otto per mille valdese, con il quale premiamo le migliori tesi in ogni anno accademico su questi temi così importanti. Il nostro impegno è diffondere il premio perché gli studenti delle Università prendano coscienza di questo argomento e per risvegliare le coscienze». 

Cosa significa l’appartenenza cristiana nella lotta alla pena di morte e alla tortura?

«Significa dare un significato più profondo alle cose che facciamo. Difendiamo il valore, la dignità e la nobiltà dell’umanità in quanto creata da Dio a sua immagine e somiglianza: è una spinta in più per agire. Ovviamente diamo molta importanza alle preghiere, che fanno parte della nostra azione».

 

Fonte: "Death Penalty World Map" di Lcmortensen - Vector map from File:BlankMap-World6.svg, with data from File:Death Penalty World Map.png (outdated). Con licenza Public domain tramite Wikimedia Commons.

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