Le buone pratiche dell'Onu sui diritti dei gay
02 ottobre 2014
Approvata una risoluzione su diritti umani e discriminazione in base all'identità di genere.
Il 24 settembre, il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha approvato una risoluzione su diritti umani e discriminazione legata all’identità di genere e all’orientamento sessuale. Per la seconda volta nella storia, un organo “politico” dell’Onu ci ricorda che discriminare sulla base dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale è tanto grave quanto discriminare qualcuno per il suo aspetto fisico, le sue opinioni politiche o la fede religiosa. Un concetto che, come dimostra il dibattito che ha portato all’approvazione del documento, è ancora avversato da molti a livello internazionale.
Dal punto di vista del diritto internazionale, non c’erano dubbi che la discriminazione basata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere fosse incompatibile con il rispetto dei diritti umani. Il principio è stato più volte ribadito da corti internazionali, come la corte europea dei diritti umani, e da diversi comitati di esperti dell’Onu. Fino al 2011 è però mancata una conferma politica di questo principio giuridico. Ancora nel 2006, per esempio, la risoluzione dell’Assemblea Generale che istituiva il Consiglio dei diritti umani menzionava dieci diversi tipi di discriminazione, ma non l’orientamento sessuale né l’identità di genere. La risoluzione del 24 settembre si situa dunque in un percorso di cambiamento iniziato nel 2010 (con un discorso del Segretario Generale che condannava le discriminazioni e le violenze subite dalle persone lgbt) e proseguito nel 2011 con una prima risoluzione del Consiglio dei diritti umani sul tema.
Le decisioni contenute nell’ultima risoluzione (settembre 2014) riguardano un rapporto redatto dall’Alto Commissario per i diritti umani sulle leggi discriminatorie e violenze legate a identità di genere e orientamento sessuale di cui il Consiglio “prende nota con apprezzamento”. Viene inoltre dato mandato all’Alto Commissario di aggiornare il rapporto e di suggerire best practices e strategie per superare violenza e discriminazione. Infine, il Consiglio decide che tornerà a occuparsi del tema nelle prossime sessioni. La parte della risoluzione che manda il messaggio più forte è però il preambolo. In esso il Consiglio esprime grande preoccupazione per le violenze e le discriminazioni subite dalle persone lgbt. Non solo, ma identità di genere e orientamento sessuale sono esplicitamente collegate al principio per cui il godimento dei diritti umani non deve dipendere da distinzioni di alcun tipo.
Potrebbe apparire un documento deludente, ma se letto nel contesto storico-politico in cui è stato prodotto, esso appare come la decisiva conferma d’un concetto ancora tutt’altro che scontato. Leggendo il riassunto del dibattito è infatti chiaro come per alcuni Stati i problemi sollevati dalla risoluzione siano poco più che fissazioni occidentali, prive del riconoscimento universale che dovrebbe caratterizzare i diritti umani. I risultati del voto danno qualche indicazione: a favore hanno votato compatti Europa e Americhe (nord, centro e sud), oltre al Sud Africa ed alcuni paesi asiatici; contro, tutti i paesi a maggioranza islamica, oltre alla Russia e molti paesi africani. Tra gli astenuti, vi sono inoltre India e Cina, che vedono il documento come un’imposizione occidentale.
Rilevante è inoltre il contenuto del rapporto a cui la risoluzione si riferisce. Esso non riporta solo i casi di leggi discriminatorie (che possono prevedere anche la pena di morte per persone lgbt), ma anche quei casi in cui le autorità statali hanno colpevolmente tollerato atti di violenza e discriminazione compiuti da privati. Viene qui confermato il principio per cui lo Stato non deve solo astenersi dal violare direttamente i diritti umani, ma anche prevenire (anche da un punto di vista culturale ed educativo) le ingerenze commesse da terzi, assistere le vittime, e perseguire effettivamente i colpevoli. Insomma, lo Stato non se ne può “lavare le mani”.
Inoltre, se il rapporto non si spinge fino a riconoscere un diritto al matrimonio per le persone dello stesso sesso, sottolinea tuttavia l’esistenza di un obbligo per gli Stati di garantire lo stesso trattamento alle coppie di fatto costituite da persone dello stesso sesso e a quelle costituite da persone di sesso differente. L’Italia rispetta il principio a modo suo, negando ogni diritto a entrambe le categorie. Sarebbe forse il caso di legiferare sul tema, anche senza aspettare le best practices dell’Onu.