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We call it “Africa”. Le virgolette sono una provocazione della curatrice, Silvia Cirelli, per indicare le mille differenze di un continente che nonostante venga identificato come “uno” raccoglie in se tantissime differenze. Dice Sirelli che “bisognerebbe parlare di Afriche. Molto spesso le mostre tendono a dare un'idea stereotipata di quello che è il panorama artistico e culturale del continente”.

In questa mostra si parla in particolare dell'Africa subsahariana, un insieme di paesi e culture che, sebbene con delle cose in comune, comprende molte differenze, molti universi multiformi e complessi.

La curatrice ha scelto quattro artisti con un linguaggio che esula da quello che noi chiamiamo arte tribale, quella che si vede molto spesso nonostante la realtà dell'arte contemporanea sia notevolmente vivace. Le modalità espressive e i temi trattati dagli artisti hanno come centro il loro paese, ma sono moderni e legati all'attualità. Anche i linguaggi espressivi sono vari: si va dalla video arte, alle audio installazioni, dai collage alle sculture senza dimenticare la fotografia.

È interessante notare che due degli artisti sono esuli: fanno parte di quel fenomeno chiamato diaspora africana. Una scelta non casuale che vuole indicare come la realtà artistica di questo continente non sia un recinto ma è in collegamento con il resto del mondo; un modo per ricordarci che gli spostamenti sono naturali e continui, e le migrazioni non sono un fenomeno recente ma antico come il genere umano.

Sempre la curatrice racconta chi sono i protagonisti dell'esposizione:

Marcia Kure è nigeriana ma vive ormai da diversi anni negli Stati Uniti. Proprio nel suo lavoro si può percepire questa sensazione di frammentarietà identitaria e sociale. Lei è sempre molto legata al suo paese di origine, usa un tipo di pittura tradizionale realizzata soprattutto dalle donne in Nigeria, ma a questo lei affianca delle tematiche più metropolitane che parlano della sua esperienza in America. I suoi lavori sono collage, e non a caso danno l'idea di una sovrapposizione, di un'eredità culturale che si è trasformata, così come la sua vita, nel corso degli anni.

Dimitri Fagbohoun è del Benin ma vive da diversi anni a Parigi. Anche in lui si assiste a una sorta di sincretismo tra l'attaccamento alla cultura africana e la personalità dell'artista che si adatta a nuove situazioni e nuovi mondi.

Maurice Mbikayi proviene dalla Repubblica Democratica del Congo ma vive in Sudafrica e in lui troviamo una pratica artistica che si concentra soprattutto sull'impatto della tecnologia nel tessuto sociale africano. È molto interessante come nei suoi collage, nelle sculture o nelle fotografie siano utilizzati come materiale di lavoro i tasti dei computer, un elemento riciclato che racconta dell'impatto della tecnologia sulla cultura ma anche dell'inquinamento provocato dagli scarti informatici e dalle discariche di materiale elettronico proveniente da tutto il mondo.

Bronwyn Katz è la più giovane del gruppo, è nata nel 1993, e lavora molto sul tema della memoria: su quelli che sono i residui della storia, anche coloniale del suo paese, il Sudafrica. Lei racconta quelle che sono le tracce della storia non solo sulle persone ma anche sul territorio per esempio raccontando delle miniere per l'estrazione dei diamanti”.

La mostra è allestita fino al 2 aprile alla galleria Officine dell'Immagine di Milano.

Immagine: Maurice Mbikayi, Ndoto Ya Baba (The Dream of A Mute), 2016. Courtesy Officine dell’Immagine, Milano

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