Ci sono dischi da ascoltare non tanto e non solo per la musica che contengono, ma soprattutto per la storia che, sottotraccia, raccontano. Si tratta spesso di lavori che non arrivano ad avere un grande successo di critica e di pubblico, ma interessanti proprio per questo.
1973. Pochi mesi dopo Made in Japan, i Deep Purple pubblicano il settimo lavoro in studio: Who Do We Think We Are. L’album non viene accolto con entusiasmo anche perché, secondo l’opinione di molti, non terrebbe il passo di quanto fatto ascoltare dalla band nel triennio precedente. Ma è andando oltre un ascolto superficiale, entrando tra le linee di chitarra e i riff di batteria che questo lavoro racconta la storia di un melting pot non sempre ben conciliato di stili e ritmi, preludio (o atto finale) dei dissidi che avrebbero portato all’uscita di Ian Gillan e alla cacciata di Roger Glover dal gruppo. Dopo il ‘73 i Deep Purple cambiarono, solcando i decenni attraverso alterne fortune.
Ma questa è storia della musica. Resta quel piccolo album, quel sasso nell’ingranaggio che in sette tracce dice tutto e che racconta una storia sul punto di cambiare.
Anche qui, anche oggi, ci sono storie che attraversano le maglie del discorso pubblico e che, nel nostro caso, in silenzio costruiscono modelli di convivenza. In un tempo in cui la geografia di provincia del nostro paese diventa il metro con cui misurare i fatti di cronaca, siamo andati a cercare una storia che per certi versi somiglia al sobbalzo che provoca il cambio di ritmo in Rat Bat Blue.
Non c’è dubbio che uno dei temi che fa scorrere i più lunghi fiumi d’inchiostro e consumare i polpastrelli sulle tastiere sia l’accoglienza dei migranti che approdano sulle nostre coste, un tema che piega la geografia alla cronaca; e così “i fatti di Gorino” o “la situazione a Cona” diventano parole chiave, collegamenti ipertestuali che rimandano in modo totalizzante a immaginari emergenziali.
Lo scorso autunno abbiamo fatto un viaggio a tappe. Siamo stati in Val Susa per la prima volta a inizio settembre e già le creste più alte iniziavano a essere coperte dalla neve. Siamo poi tornati altre volte, sempre con la neve che ci guardava aggrappata più o meno in alto, dall’Orsiera al Rocciamelone.
È tra quelle montagne che è nato il progetto pilota chiamato MAD – Micro Accoglienza Diffusa, che la Prefettura di Torino sta prendendo in questi mesi a modello per gli accordi siglati nelle ultime settimane in tutta la provincia.
Per capire la portata di questo modello bisogna tornare indietro di un anno, ai primi mesi del 2016, quando la stessa Prefettura e un gruppo di 20 comuni della bassa Val Susa, guidati dall’amministrazione di Avigliana, sottoscrissero un accordo che per la prima volta in Piemonte prevedeva la ripartizione dei posti per l’accoglienza in modo concordato e distribuito sul territorio. Nessun grande centro, nessuna imposizione, ma un dialogo costante per gestire in modo razionale numeri possibili secondo quello che l’assessore alle Politiche sociali e giovanili del comune di Avigliana, Enrico Tavan, definisce come la «sostenibilità sociale» dell’accoglienza.
Prima di essere modello per altri, però, quello della Val Susa appare come un ragionamento che il territorio ha fatto su se stesso, sulle proprie potenzialità, sulla geografia e sul senso da attribuire alla parola “accoglienza”. Un processo facilitato certamente dalla vivacità culturale e associativa del territorio e dalla prassi del dialogo reciproco tra le varie amministrazioni comunali che, a partire dalla questione TAV fino ad altri capitoli della vita di valle, sono abituate ad affrontare insieme i grandi e piccoli temi.
Ma le particolarità del modello valsusino non si fermano alla coesione territoriale e nel reportage video qui di seguito proviamo a raccontarle soffermandoci sui punti innovativi e sugli spunti pratici, partendo dal mosaico di competenze che agiscono sul territorio di concerto con l’indirizzo dato dai diversi comuni coinvolti. Competenze che a livello operativo che spaziano dall'esperienza del lavoro negli SPRAR valsusini della cooperativa Orso e della Fondazione Talità, fino alla Diaconia Valdese che da anni lavora nell’accoglienza diffusa in contesti alpini; dalla Cooperativa Frassati, che in quella valle si occupa di domiciliarità e servizi alla persona, alla cooperativa Amico, che si occupa di manutenere gli alloggi e che potrà inserire i migranti in futuri tirocini lavorativi.
In Italia, nel frattempo, la discussione su quella che viene chiamata “emergenza migranti” è proseguita. Nell’estate dello scorso anno l’Anci ha proposto un sistema di accoglienza diffusa che fissa una quota di 2,5 migranti accolti ogni 1000 residenti. A dicembre il ministero dell’Interno e la stessa Anci hanno firmato un protocollo che prevede la messa a regime del nuovo modello nel corso del 2017.
Guardare oggi alla Val Susa vuol dire riferirsi a un modello in grado di segnalare luci ed ombre di ciò che potrebbe essere l’accoglienza futura nel nostro Paese. Vuol dire saper guardare a una realtà a macchia di leopardo dove a pochi chilometri di distanza convivono situazioni emergenziali e buone pratiche, cercando di trarne una lettura per il domani.
Un po’ come chi, nell’estate del 1973, ascoltando il nuovo album in studio dei Deep Purple, poteva stupirsi della distanza abissale con il live registrato poco prima in Giappone avendo in mano tutti gli elementi per capire cosa sarebbe successo di lì a poco. Bastava guardare, e ascoltare, nella giusta direzione.
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